mercoledì 30 marzo 2016

Giustiziato? No, assassinato


Ci spiace, ma ancora una volta dobbiamo denunciare la "malalingua" della stampa. Un grande quotidiano in rete titolava:



Il pregiudicato non è stato giustiziato, ma, secondo l'uso corretto della lingua italiana, "assassinato".  La differenza tra giustiziare e assassinare è stata trattata, tempo fa, su questo portale. Chi è interessato all'argomento può cliccare su questo collegamento.
Dimenticavamo. All'interno dell'articolo si legge anche: «L'auto nella quale si è accasciato esamine, una Fiat Punto intestata a un altro soggetto già noto alle forze dell'ordine, è stata sequestrata». Forse è il caso di ricordare all'estensore dell'articolo che la voce corretta è "esanime" (senza "anima", senza "vita").

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Abbiamo visto, con piacere, che le voci "giustiziato" e "esamine" sono state emendate...

martedì 29 marzo 2016

«Pedanterie linguistiche»?

Colare — nei tempi composti si adopera l’ausiliare essere se si prende in considerazione il liquido che cola: il vino è colato tutta la notte dall’otre; l’ausiliare avere, invece, riferito al contenitore: l’otre ha colato tutta la notte.

Dentro — avverbio e preposizione. In funzione di preposizione, con il significato di in, nel, si unisce direttamente al nome o si accompagna alle preposizioni a o di: dentro la casa, dentro al cassetto. Se segue un pronome personale l’uso della preposizione di è obbligatorio: voglio leggere dentro di te.

Deprezzare — verbo da lasciare al linguaggio commerciale. Diremo, correttamente: svalutare, svilire e simili.

Derisore — aggettivo e sostantivo. Come aggettivo, terminando in -e, nel femminile singolare resta invariato. In funzione di sostantivo, invece, nella forma femminile singolare muta la e in a: derisora.


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Un articolo di Giuseppe Patota sui verbi "bollire" e "cucire".

Il verbo bollire, però, nei tempi andati accettava le diverse forme in -isc- o senza (fa parte della schiera dei verbi cosí detti sovrabbondanti, con più forme per una stessa funzione), anzi la forma incoativa era preferibile per non confondersi con alcune voci del verbo "bollare"; ma adesso le moderne grammatiche consigliano solo l'alternativa senza l’infisso  "-isc-". Va tenuta presente, poi, la distanza tra le grammatiche e l'uso. Certo, oggi, nessuno direbbe piú che l’acqua “bollisce”, però... guardate questo coniugatore.

lunedì 28 marzo 2016

Si dice repulsione o ripulsione?

Repulsione o ripulsione? Qual è la grafia corretta? L’insegnante di mio figlio (II media) ha corretto, in un componimento, ripulsione in repulsione. In attesa di una sua cortese risposta, gentile dr Raso, la ringrazio anticipatamente e mi complimento per il suo encomiabile "servizio".
 Cordiali saluti
 Giovanni P.
Foggia
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Entrambe le grafie sono corrette, non capisco, quindi, la... correzione del docente.
C’è da dire, però, che repulsione rispecchia fedelmente l’origine latina: repulsione(m), da repulsus, participio passato di repellere (respingere). Per l’esattezza il vocabolo in questione è composto del prefisso re- (indietro) e il verbo pellere (spingere); quindi respingere significa spingere indietro. In moltissime parole il prefisso latino re- si alterna con quello italiano ri-, come nel caso, appunto, di repulsione o ripulsione; recupero o ricupero; resurrezione o risurrezione. I prefissi “re-“ e “ri-”, sia ben chiaro, si mettono davanti ai verbi e loro derivati per indicare il ripetersi di un atto, di un’azione o per indicare il verificarsi di un’azione di senso contrario come, per esempio, re-agire; re-impiegare, re-investire; re-spingere.


 

domenica 27 marzo 2016

Pasqua 2016

 
A tutti gli amici che seguono le nostre modeste noterelle sulla lingua italiana
 

venerdì 25 marzo 2016

Ventun anno? Non fa una piega

I nostri amici lettori - non piú giovanissimi - ricorderanno che fino a qualche decennio fa la maggiore età si raggiungeva al compimento del ventunesimo anno. E ricorderanno, anche, le famose frasi dei genitori: quando avrai compiuto i ventun anni potrai fare ciò che vorrai, ma fino a quel momento sei soggetto alla patria potestà. Questo "ventun anni" creava, e ancora crea, problemi circa l'apostrofo e la concordanza del sostantivo. Si deve scrivere "ventun'anni" , con tanto di apostrofo, o "ventun' anno", sempre con tanto di apostrofo? Alla prima domanda si può rispondere con la massima tranquillità (e certezza): niente apostrofo, perché si tratta di un troncamento e non di un'elisione. E c'è una "regola pratica" che ci aiuta a distinguere il troncamento dall'apostrofo: se il vocabolo che noi riteniamo debba essere apostrofato può stare davanti a una parola che comincia con una consonante e non crea cacofonia (suono "disgustoso") vuol dire che non si tratta di apostrofo ma di troncamento. Scriveremo, per tanto, ventun anni (senza apostrofo) perché si può dire, benissimo, ventun quaderni. In caso di cacofonia si dovrà, invece, ricorrere all'apostrofo. Per quanto attiene alla seconda domanda (ventun anni o ventun anno), la risposta è un po' piú complessa. Per i grammatici "moderni" non ci sono dubbi: ventun anni. Il sostantivo che segue il numerale deve essere plurale. Noi, sommessamente, vogliamo ricordare che c'è una regola in proposito - anche se nel linguaggio comune non è rispettata - cui gli amanti della lingua debbono sottostare. Vediamola. Se l'aggettivo numerale precede il sostantivo quest'ultimo è in numero singolare e l'aggettivo nel genere del sostantivo: ventun anno; cinquantuno alunno; trentuna matita. Quando il sostantivo precede, invece, il numerale il nome è in numero plurale e l'aggettivo nel genere del sostantivo: anni ventuno; alunni cinquantuno, matite trentuna. Se, infine, il sostantivo è seguito o preceduto da un aggettivo qualsiasi, il numerale è nella forma indeclinabile maschile, mentre il sostantivo e l'aggettivo sono di numero plurale e concordanti fra loro nel genere: ventun cani tedeschi; trentuno matite rosse. Questa "regola" si applica anche quando il sostantivo ha l'articolo, sia che l'accompagni o no un altro aggettivo: i ventun cani tedeschi; un trentuno matite rosse. Giunti a questo punto ci sembra superfluo ricordare che gli aggettivi numerali cardinali, a eccezione di "uno", sono "solo" plurali e indeclinabili per quanto attiene al genere. Naturalmente i cosí detti linguisti doc storceranno il naso e ci scaglieranno i loro "strali linguistici", ma queste sono le regole, che piacciano o no. E i lettori che amano il bel parlare e il bello scrivere non possono ignorarle.

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La parola che proponiamo oggi, se non cadiamo in errore, è attestata solo nel vocabolario Palazzi: sparnicciare. È un verbo e un sostantivo. Come verbo sta per "sparpagliare", "spargere" e simili. Come sostantivo indica il rumore che fa un'arma da fuoco, quindi "cannonata", "schioppettata" e simili. E quella proposta, ieri, da "unaparolaalgiorno.it: forfait. A questo proposito vi suggeriamo di dare un' "occhiata" anche qui.





giovedì 24 marzo 2016

Cimmerio

La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": cimmerio. Si veda anche qui e qui.
E quella segnalata da questo portale: epimone. Sostantivo femminile non attestato nei vocabolari dell'uso. È una figura retorica consistente nella ripetizione insistente di una frase o di una parola per rincalzare quanto già detto. 

mercoledì 23 marzo 2016

Mettere uno sulle roste

Questo modo di dire - per la verità poco conosciuto, derivando da un vocabolo raramente adoperato, la rosta - significa "mettere qualcuno alla berlina". Il termine non è schiettamente italiano, provenendo dal longobardo  "hrausta" (frasca), e indica una sorta di ventaglio fatto di frasche o anche di cartoncino a forma di quadrilatero che si adoperava all'inizio del secolo scorso. Quando veniva "azionato" metteva in evidenza figure, molto spesso burlesche, o poesie satiriche che erano disegnate o scritte sulle due "facce", da pittori e letterati dell'epoca che mettevano, cosí , alla berlina vizi e cattive usanze. Metaforicamente, quindi, si mettono sulle roste le persone da "satireggiare" a causa dei loro vizi e dei cattivi comportamenti. Si veda anche qui.

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Orientarsi e orizzontarsi: sinonimi? Risponde la Crusca.

domenica 20 marzo 2016

Non meni una vita mondana? Sei proprio un idiota!

Scrive Paul Laffite: «Un idiota povero è un idiota, un idiota ricco è un ricco». Voi quanti ricchi conoscete? Bando agli scherzi; oggi questo termine, vale a dire idiota, ha assunto – come tutti sappiamo – l’accezione dispregiativa; in origine non era affatto così.
L’idiota, stando all’etimologia, è colui che conduce una vita privata, fuori della società e dei pubblici impieghi perché deriva dal... latino idiota, tratto dal greco (idiòtes), che significa, propriamente, particolare, privato; colui, quindi, che mena una vita privata, particolare, appunto. Un privato cittadino, per tanto, stando alla lingua, è un perfetto idiota, al contrario di alcuni politici che non possono assolutamente essere considerati... idioti, anche se...
Con il trascorrere del tempo il significato originario del termine, cioè di colui che vive in disparte, da privato, si è tramutato in uomo rozzo, ignorante, demente perché l’idiota vivendo, appunto, da privato, non ha possibilità di affinare le sue capacità cerebrali. Da idiota, cioè da stupido, sono stati coniati i termini medici idiozia e idiotismo, vale a dire «gravissimo arresto delle facoltà intellettive che si manifesta in modo totale o parziale».
Da non confondere, a questo proposito, l’idiotismo medico-scientifico con quello linguistico, anche se l’origine dei due termini, come si può intuire, è la medesima. L’idiotismo linguistico, per usare le parole dell’illustre linguista Aldo Gabrielli, «è il sale e il pepe di una lingua».
Deriva dalla voce greca "idiotismòs", tratta dall’aggettivo "ìdios", (mio, particolare, proprio) ed è, quindi, quella parola o quel modo di dire che si discosta dalle leggi della grammatica ed è propria (idios) di una lingua o di un dialetto, di una regione o di una provincia. È, insomma, una parola che spurgata della sua volgarità (idiotismòs significa anche parlo volgare) entra a pieno titolo nel patrimonio linguistico nazionale, e noi tutti la adoperiamo quotidianamente senza pensare minimamente alla sua volgarità originaria.
La nostra bella lingua è ricchissima di idiotismi; il taccheggio, per esempio, termine tanto di moda oggi, è uno di questi. I vocabolari lo definiscono «furto commesso da chi, in un negozio, sottrae clandestinamente ciò che gli capita a portata di mano». Alcuni lo fanno derivare dall’accezione gergale di tacca (truffa): i negozianti di un tempo erano soliti segnare i debiti dei clienti (che molto spesso non pagavano) con tacche su un’apposita tessera. Da tacca è stato coniato il verbo taccheggiare, cioè... rubare

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La parola che proponiamo oggi è ripresa dal Treccani, l'unico vocabolario - sembra - che la registra (oltre al Tommaseo-Bellini): elentico. È un aggettivo e vale "confutativo".

sabato 19 marzo 2016

Fidanzarsi vuol dire... fidarsi

Sí, proprio cosí: chi si fidanza si fida. E per conoscere il "perché" occorre prendere il discorso alla lontana e rifarsi - come avviene spesso per le questioni di lingua - all'idioma dei nostri antenati: il latino. Dobbiamo risalire, infatti, al participio passato del verbo latino "spondere" ('promettere solennemente'), "sponsus".  Lo "sponsus" e la "sponsa" (il promesso e la promessa) erano, quindi, coloro che "promettevano solennemente" di unirsi in matrimonio tra loro. Nell'antica Roma la formula rituale che gli innamorati si scambiavano all'atto del fidanzamento era: "spondesne?" (prometti?); alla quale si rispondeva: "spondeo" (prometto). Il cerimoniale della promessa di matrimonio prevedeva anche che ciascuno dei "promessi" infilasse nel dito dell'altro un anello, elemento di una "catena" spirituale, come segno di fede reciproca; e di qui anche il nome di fede che si dà all'anello nuziale. E siamo, cosí, giunti al... fidanzamento. Fede in latino si diceva "fides", da questo termine si coniò "fidentia" (fidanza, fiducia) e di qui i vocaboli italiani 'fidanzarsi', 'fidanzati', 'fidanzamento'. Il fidanzamento, per tanto, si può definire un "atto di fiducia" tra due giovani.

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Ricordare e rammentare

Nell'uso comune - come attestano i vocabolari - i due verbi sono l'uno sinonimo dell'altro. A voler sottilizzare, però, hanno una diversa "sfumatura" di significato come possiamo vedere cliccando qui e qui.



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Molti amici blogghisti desiderano sapere dove possono reperire il nostro libro "Un tesoro di lingua". Il volume non è in vendita. Chi è interessato può richiederlo all'Editore:
"Associazione Nazionale 'Nuove Direzioni' Cittadino e Viaggiatore"
50125 FIRENZE via San Niccolò 21
telefoni 055 2469343 – 328 8169174
info@nuovedirezioni.it


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IS, ISIS o DAESH? Risponde l'Accademia della Crusca



 
 
 
 
 
 
 




giovedì 17 marzo 2016

Un atlante linguistico italiano

Portiamo all'attenzione degli amanti o, se preferite, degli amatori della lingua un sito davvero interessante.

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La parola che proponiamo oggi non è desueta, ma non è "lemmata" in molti  vocabolari dell'uso: incamerellato. È un aggettivo e si dice di un appartamento composto di tante piccole stanze (camerelle).

mercoledì 16 marzo 2016

In punto o in punta di diritto?



Alla domanda del titolo risponde l'Accademia della Crusca.

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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": oblomovismo.

martedì 15 marzo 2016

Torniamo a bomba con l'aggettivo

Caro Direttore,
dopo la preposizione  anch’io desidero salire agli onori dei... giornali, anzi della rete, perché  appartengo al gotha della lingua.
Le mie origini, come quelle dei cugini avverbio e preposizione, sono nobili; discendo, infatti, dal latino medievale “adiectivum” (aggiunto), composto di “ad” (presso) e “iacere” (gettare); propriamente significo “colui che si getta presso”; per questo motivo alcuni miei biografi amano definirmi “quella parte variabile del discorso che si ‘aggiunge’ al nome per indicare una qualità o per dargli una precisa determinazione”. Sono, quindi, l’aggettivo. E sempre per il motivo di essere “gettato” accanto al nome sono stato diviso in due gruppi: ‘qualificativo’, se aggiungo al nome o sostantivo una qualità e ‘determinativo’ se aggiungo al nome un preciso elemento che ne determini, appunto, la posizione o il possesso.
Prima di farvi degli esempi, per meglio chiarire questi concetti, mi preme rammentarvi che, essendo di nobili natali, non mi piace vedermi sempre “appiccicato” al nome; spesso la mia aristocratica presenza non è necessaria, per questo adoro moltissimo ciò che di me ha detto Alphonse Daudet: “L’aggettivo deve essere l’amante del sostantivo e non già la moglie legittima. Tra le parole ci vogliono legami passeggeri e non un matrimonio eterno”. Quando scrivete (o parlate), quindi, non abusate sempre di me.
''Tornando a bomba'', se io dico una casa bella aggiungo alla casa, cioè al sostantivo, una qualità, vale a dire la bellezza; “bella”, per tanto, è un aggettivo qualificativo. Se dico, invece, quella casa, specifico quale casa, cioè la determino; “quella”, quindi, è un aggettivo determinativo. Gli aggettivi determinativi si dividono, a loro volta, in quattro specie: dimostrativi (quella); possessivi (mia); numerali (una) e quantitativi (poco). Come mio cugino l’avverbio che può stare prima o dopo del verbo, anch’io posso essere collocato prima o dopo del sostantivo, non esiste una “legge” in proposito: posposto al sostantivo do maggiore “spicco” alla qualità che si intende mettere in evidenza. È una “donna bella” ha una “sfumatura” diversa, infatti, che non è una “bella donna”. Attenzione ai casi, però, in cui la collocazione dell’aggettivo può creare ambiguità: è una “buona donna” acquista un significato diverso da è una “donna buona”. Non finirò mai, dunque, di raccomandarvi di “piazzarmi” al posto giusto al fine di evitare incresciosi “incidenti di percorso” nelle vostre relazioni sociali.
Per quanto attiene alla concordanza, in linea di massima, devo essere dello stesso genere e dello stesso numero del sostantivo (o dei sostantivi) cui mi riferisco: il libro è bello; i libri sono belli. Quando sono in compagnia di due o piú sostantivi dello stesso genere seguirò, ovviamente, il medesimo genere e sarò plurale: i libri e i quaderni sono belli. Se, però, si tratta di esseri inanimati o di concetti astratti o strettamente affini, di genere singolare, posso restare anch’io singolare.
Mi spiego meglio con alcuni esempi: la franchezza e la generosità romane. Ma anche: la franchezza e la generosità romana. L’aggettivo singolare ‘romana’ si riferisce tanto a franchezza quanto a generosità. Ancora. Un cappello e un abito nero. Ma anche: un cappello e un abito neri. E a proposito di colori, si faccia attenzione all’ “aggettivo” marrone perché non è propriamente tale. So benissimo che i piú lo considerano un aggettivo e lo concordano, quindi, con il sostantivo cui si riferisce cadendo, però, in un madornale errore. Marrone, dunque, non è un aggettivo come ‘giallo’, ‘verde’, ‘rosso’, ‘nero’ ecc., ma un sostantivo che significa “color del castagno, del marrone” e resterà, quindi, invariato: guanti (del color del) marrone; giacca (del color del) marrone; scarpe (del color del) marrone. Nessuno, infatti, si sognerebbe di dire “camicie rose”; “capelli ceneri” ma correttamente: camicie rosa (del color della rosa); capelli cenere (del color della cenere). Perché il mio amico marrone deve essere violentato?
Grazie al direttore dell'ospitalità e grazie a voi dell'attenzione. Passo, ora, la “parola” al Pianigiani che vi “illuminerà” sull’origine della locuzione che ho adoperato prima: “tornare a bomba”.
Il vostro amico
  Aggettivo

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Ci spiace doverci sempre ripetere, ma non possiamo proprio non... farlo. Nella trasmissione televisiva di ieri sera, "Quinta Colonna", i responsabili hanno messo in onda un cartello con una parola barbara, ma tremendamente errata: bouvette. Insistiamo, liberissimi di adoperare forestierismi anche se ci sono i corrispettivi "omologhi" italiani, ma li usino e scrivano, perlomeno, in modo corretto. Il termine corretto è, dunque, buvette (senza la "o").

lunedì 14 marzo 2016

Far la mamma di San Pietro

Si adopera questa locuzione - forse poco conosciuta - quando si vuole mettere in particolare evidenza l'avarizia di una donna.  Si dice, infatti, di colei che ama il denaro e i propri averi piú di sé stessa e non darebbe un bicchier d'acqua neanche se l'assetato le cadesse davanti svenuto. Il modo di dire è prettamente popolare e, in quanto tale, la sua origine si perde nella notte dei tempi.  Potrebbe essere una leggenda, dunque, cosí come la racconta Giuseppe Pitré (Palermo 1841-1916), medico e studioso di "cose popolari". Vediamola.  «Narrasi, dunque, che la mamma di San Pietro fu sí avara e di cuor duro, che non andava povero a bussare al suo uscio, il quale non fosse cacciato via come un ladro. Visse cosí fino all'estrema  vecchiezza , non avendola ravveduta né le prediche di Gesú , né gli esempi di carità dati dal figlio. Com'è vero che quando un viziaccio s'è radicato fin da fanciulli nel nostro animo, non c'è che un miracolo di Dio, che ne lo sradichi. Fatto è, che la madre di San Pietro morí con quel peccato nell'anima, e andò all'inferno. Erano passati molti molti anni e la misera penava sempre  nello stesso fuoco; e mandava continue preci al figlio, ch'è il custode delle porte del paradiso. Egli le udí una volta, e n'ebbe (occorre dirlo?) gran pietà; e pregò tanto il buon Dio, che ottenne di liberarla, se si trovasse che in vita di lei, per un atto anche minimo di carità, le fosse stato detto una volta sola, "Dio te ne renda merito". Cerca, cerca, si trovò davvero che un giorno aveva dato una buccia di porro a un poverello, il quale disse: "Dio te lo rimeriti". Di ciò lieto San Pietro, va nel giardino celeste, e carpe un porro; e per miracolo l'allunga tanto tanto, tenendolo per la coda, che ne arriva il capo all'inferno dov'era la madre; e il figlio le dice: "Attaccati, mamma, al porro, ch'io traggo su piano piano". La madre appena ode le parole del figlio e vede il capo del porro lo afferra subito e lentamente comincia ad uscire dal fuoco. Come la videro gli altri dannati cominciarono ad attaccarsi al lembo della sua veste e ai piedi: anch'essi volevano uscire dal fuoco. La madre di San Pietro, quindi, si vide come assediata dalle api e cominciò a tirare calci a destra e a manca, gridando: "Andatevene"; lo fece con tanta rabbia e violenza da rompere il gambo del porro e... paffete, cadde indietro dentro al fuoco. E cosí il Signore la castigò».

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La parola che proponiamo oggi è: encorico. È un aggettivo non attestato in tutti i vocabolari e significa "che è del luogo". Si veda anche qui.

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Se non cadiamo in errore tutti (?) i vocabolari dell'uso, anche quelli più "autorevoli", attestano il sostantivo "sosia" invariabile e riferibile tanto a un uomo quanto a una donna. E fin qui, tutto normale. La "anormalità" - a nostro modo di vedere - sta nel fatto che detti vocabolari usano l'articolo femminile quando il sostantivo in oggetto si riferisce a una donna: le sosia della regina Elisabetta. No, i sosia della regina Elisabetta. Sosia era il nome di un servo di Mercurio e da nome proprio è divenuto nome comune, ma "maschio" era e maschio deve restare, anche se si riferisce a una donna. Ma tant'è.

domenica 13 marzo 2016

Straccagelosie



Il termine che avete appena letto - relegato nella soffitta della lingua - un tempo si usava per definire la persona curiosa, pettegola che sta sempre dietro le gelosie (persiane) per "farsi i fatti degli altri". E se lo "riesumassimo"?

sabato 12 marzo 2016

Essere di quarto

I lettori che hanno svolto il servizio militare in Marina (quando la leva era obbligatoria) dovrebbero conoscere questo modo di dire che significa "essere di turno nello svolgimento di un determinato compito", soprattutto in servizi di sorveglianza e simili: «Domani, amico, non posso venire perché "sono di quarto" in ufficio; sarà per un altro giorno». L'espressione, dicevamo, è tratta dal gergo marinaro dove, un tempo, si definiva cosí  il turno di guardia che aveva la durata di quattro ('quarto') ore. Di significato affine "essere di settimana", vale a dire essere tenuti a svolgere un turno di servizio... settimanale.

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Composto "di" o composto "da"?

I vocabolari non fanno distinzione di sorta sull'uso delle due preposizioni precedute dal verbo "comporre": la mia famiglia è composta da quattro persone o di quattro persone. A voler sottilizzare c'è una sfumatura di significato tra l'uso di "da" e di "di". Quando il verbo comporre sta per  "costituire", "formare","comprendere" è preferibile adoperare la preposizione "di": la famiglia di Paolo è composta (formata) di sei persone; l'appartamento in vendita è composto di (comprende) cinque vani. Nella forma passiva si adopererà, ovviamente, la preposizione "da": I Promessi Sposi sono stati composti da  Alessandro Manzoni.

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Meteo: maschile o femminile?

Si veda qui.
 

venerdì 11 marzo 2016

Essere pettegolo come una taccola

Questo modo di dire dovrebbe esser noto ai lettori veneti  derivando, la voce pettegolo, dal dialetto veneto, appunto, "petegolo"  (propriamente "piccolo peto", vale a dire "rumore intemperante e sgradevole").  Il pettegolo, infatti, con le sue "chiacchiere e commenti maliziosi su altre persone" non emette sempre un chiacchiericcio, quindi, un "rumore sgradevole"?  E perché come una taccola? È presto detto. La taccola, un uccello dei passeriformi simile alla cornacchia, vive in comunità e si unisce sempre a gruppi di corvi emettendo un verso continuo e articolato che unito ai versi degli altri uccelli "appare" come un ininterrotto chiacchiericcio.  Di qui il "paragone metaforico" con la persona pettegola. Occorre dire, però, per "dovere di cronaca", che alcuni autori fanno derivare la voce, o meglio la connettono a "putus", ragazzo, attraverso una forma  diminutiva di "puticolus" ('fanciullo' e i fanciulli - si sa - non stanno mai zitti); altri a "petere", andare verso, ricercare e il "petente" - anche questo si sa - non sta mai zitto: con le sue richieste diventa assillante. Il modo di dire si usa anche nella variante "pettegolo come una portinaia", ossia chiacchierone, come la tradizione descrive le portinaie, che solitamente si intromettono nei fatti degli altri e sanno tutto ciò che riguarda gli inquilini del palazzo.

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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": diaspora.

mercoledì 9 marzo 2016

«Risparmioso»

Sull'onda emotiva, forse, di "petaloso" un quotidiano in rete cosí titolava:

L'Italia non è un Paese per le lavoratrici
 Stipendio più basso del 10,9%

Donne più risparmiose degli uomini

Ma i titolisti del quotidiano sanno che "risparmioso" (non attestato nella quasi totalità dei vocabolari) è un aggettivo adoperato in senso scherzoso per dire "che consuma poca energia"? Può essere risparmioso, dunque, un qualsiasi apparecchio elettrico, non un essere umano. I redattori del giornale avrebbero dovuto adoperare, correttamente, uno di questi aggettivi: economo, parco, risparmiatore. Il titolo, dunque, in buona lingua italiana, avrebbe dovuto recitare: «Donne piú econome degli uomini». Ma tant'è. La stampa continua a disattendere le "raccomandazioni" dell'Accademia della Crusca.

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Un interessante articolo di Massimo Bellina su "ramanzina e romanzina". Noi, molto più succintamente, avevamo trattato lo stesso tema per rispondere alla richiesta di un lettore.

martedì 8 marzo 2016

Il "plurale di modestia"

I lettori assidui di questo portale, se hanno letto i commenti all'articolo un "codino linguistico", avranno notato lo "scontro" tra l'estensore di queste noterelle e un anonimo lettore . Quest'ultimo contestava al titolare del portale l'uso errato del "plurale di modestia". Scriveva il lettore: «Il dilemma sta in accusandoci (accusando noi, plurale) di essere un codino (singolare), il nostro (di noi, plurale) mestiere di censore (singolare)». Crediamo opportuno fare un po' di chiarezza in merito. Si adopera il plurale di modestia (ma oggi l'uso sta quasi scomparendo) quando lo scrittore non vuole far "pesare" la sua autorevolezza, come se non fosse lui a parlare o a scrivere. E qui nasce il problema della concordanza. Gli aggettivi e i sostantivi si mettono al plurale? Il problema si risolve con la concordanza a senso, cioè si concordano con il soggetto logico e non grammaticale (noi). Un esempio di questa concordanza si ha con il "plurale maiestatis" (che è lo stesso di quello di modestia). Nei diplomi di laurea possiamo, infatti, leggere: «Noi, professor Pinco Pallino, rettore dell' Università di...». Come si vede tanto il sostantivo professore quanto il sostantivo rettore sono nella forma singolare perché si riferiscono al soggetto logico Pinco Pallino e non a quello grammaticale noi. Possiamo dire (o scrivere) «Noi, *professori Pinco Pallino, rettori...»? Assolutamente no. Quindi... Un bellissimo esempio di plurale di modestia si ritrova nei «Promessi Sposi» del principe degli scrittori, Alessandro Manzoni: «E, per la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti (...) anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire» (XXVI 1). L'anonimo lettore vuole correggere anche Alessandro Manzoni?

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Tanti, tanti cari auguri alle gentili Lettrici di questo sito.

Risultati immagini per festa della donne mimosa

sabato 5 marzo 2016

Perché biscazziere due "Z" e giustiziere una sola?

Pregiatissimo dott. Raso,
non so come spiegare a mio figlio perché le parole biscazziere, mazziere, carrozziere, tappezziere, corazziere prendono due "z" mentre giustiziere, daziere, finanziere, romanziere, forziere ne prendono una sola. Eppure tutte queste parole e tante altre hanno la medesima terminazione in "iere", come mai questa disparità? Insomma, dott. Raso, come si fa a stabilire con certezza assoluta quando una parola si scrive con una zeta e quando con due? Sperando in una sua esaustiva e cortese risposta, la ringrazio anticipatamente e le porgo i miei più cordiali saluti.
Massimiliano O.
Prato
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Caro amico, cercherò di spiegarmi il piú chiaramente possibile. La questione della zeta è causa di molti dubbi. In linea generale si mette la doppia zeta quando quest'ultima consonante è seguita da una sola vocale: pazzo, pozzo, corazza; si mette una sola zeta se detta consonante è seguita, invece, da due vocali: azione, abbazia, giustizia, stazione. Secondo questa "regola" dovremmo avere *maziere, *coraziere, *biscaziere, perché, appunto, dopo la zeta abbiamo due vocali. Perché, invece, prendono - correttamente - due zeta? Perché sono termini denominali derivati da sostantivi che al loro interno hanno due zeta: mazziere (da mazza), corazziere (da corazza),  biscazziere (da una forma antica "biscazza"*). Vediamo, ancora, altre parole con due zeta nonostante questa consonante sia seguita da due vocali: carrozziere (da carrozza), tappezziere (dal verbo tappezzare), terrazziere (da terrazza, questa, però, dal francese "terrasse"), arazziere (da arazzo). Per concludere, gentile Massimiliano, si ha la doppia zeta in tutte la parole in "-iere" derivate da altre la cui radice ha due zeta.

* Biscazza (bisca)


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Ancora un verbo "ammuffito" che invece andrebbe - a nostro modesto avviso - ripulito e rimesso a lemma nei vocabolari: altoriare. Che cosa sta a significare? Portare aiuto.

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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": fervente.

giovedì 3 marzo 2016

Transitivo e intransitivo

Cortese dott. Raso,
sento il bisogno di ringraziare lei e l'editore che generosamente ha messo in libera consultazione il suo straprezioso libro. Il volume mi è stato di grandissimo ausilio per far capire, finalmente, a mio figlio (I media) come si riconosce un verbo transitivo. Ma soprattutto come si fa a stabilire se una parola prende una o due "g". Finora tutti i tentativi "esplicativi" erano risultati vani, nell'uno e nell'altro caso. Grazie ancora, dottore, per il suo encomiabile lavoro - attraverso il suo altrettanto prezioso blog - riservato agli amanti del bel parlare e del bello scrivere.
Alessandro T.
Carignano (Torino)
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Grazie a lei, gentile Alessandro.

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 Un interessantissimo articolo di Paolo D'Achille sulla preposizione da adoperare con il sostantivo "delitto".

  
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Ancora un termine che ci piacerebbe fosse rimesso a lemma nei vocabolari: balusante. Aggettivo, si dice della persona miope, che ha la vista corta.

mercoledì 2 marzo 2016

Un «codino linguistico»

Un lettore, trinceratosi dietro l'anonimato e definitosi un editorialista di un grande quotidiano, ci ha inviato un' elettroposta accusandoci di essere un "codino linguistico*", vale a dire un "conservatore della lingua" . Messaggi del genere ci arrivano in continuazione, ma questo era particolarmente 'pesante'. Non scendiamo al suo livello e gli rispondiamo riproponendo un nostro vecchio intervento sull'argomento.

* Codino

 
Il nostro mestiere di “censore della lingua” (scelto per vocazione, s’intende) presta il fianco agli attacchi da parte dei soliti soloni che ritengono essere gli unici depositari della verità, quella della lingua, naturalmente: costoro ci accusano di “conservatorismo linguistico” e di volere, a tutti i costi, il rispetto di alcuni “canoni” che il tempo e il non-uso hanno definitivamente cancellato. Per costoro, insomma, che si definiscono “progressisti della lingua”, attraverso le nostre noterelle riportiamo il nostro idioma ai tempi di Dante. “La lingua, per bacco!, si evolve - sostengono - ciò che era ‘legge linguistica’ cinquant’anni fa è stato superato dall’uso, è l’uso che fa la lingua”. E quest’ “uso” ha indotto alcune Università a organizzare corsi di recupero per studenti “analfabeti”. Ai nostri detrattori, in maggioranza giornalisti (coloro, quindi, che “usano” la lingua quotidianamente e la “dispensano”) rispondiamo “rispolverando” alcune nostre modeste noterelle. Siete voi, amici carissimi, i “conservatori” della lingua; siete voi, non noi, ad adoperare un linguaggio cinquecentesco. Una riprova? “La squadra è stata sfortunata, che jella!”; “Una jattura ci perseguita”, non riusciamo a vincere su quel campo”; “Naja volontaria per le donne”; “La società ha ottenuto una fidejussione”; “La crisi dell’ex Juogoslavia”. Potremmo continuare, ma ci fermiamo qui per non tediarvi oltre misura. Come potete vedere, sono tutti titoli presi a caso da alcuni quotidiani, e tutti hanno lo stesso “denominatore comune”: parole contenenti la “j” anziché la vocale corretta italiana “i”. La “J” è scomparsa dal nostro alfabeto ed è rimasta in uso solo in alcuni nomi propri (Jacopo); fu introdotta, nel Cinquecento, da Gian Giorgio Trissino, e si adoperava quando era iniziale di una parola seguita da vocale o iniziale di sillaba: jattura; aja; fornajo. Oggi nessuno scrive piú “jeri”o “noja”, non vediamo, quindi, perché si debba scrivere “naja”, “jattura” ecc. Il Trissino sarebbe considerato, oggi,  un conservatore della lingua, anche se resta suo il merito di avere imposto la necessaria distinzione di grafia delle lettere “V” e “U”. Noi non siamo “progressisti”? A voi, amici blogghisti, la risposta. Siamo conservatori della lingua perché pretendiamo che siano rispettati alcuni canoni “sacri” del nostro idioma? Affosseremmo la lingua perché insistiamo, per esempio, nel pretendere il rispetto del dittongo mobile? Coloro che si dichiarano progressisti della lingua sostenendo che questa si evolve, ed evolvendosi si semplifica, dovrebbero sapere che la tendenza della lingua moderna e “progressista” è di abolire il dittongo dove dovrebbe esserci, per snellire la lingua stessa: gioco è meglio di giuoco, cosí come figliolo è meglio di figliuolo. Non riusciamo a capire, quindi, per quale oscuro motivo i “semplificatori” della lingua, quella che si evolve, mettano il dittongo dove per legge grammaticale non dovrebbe, anzi, non deve esserci e viceversa: suonavo; siederò; muovevo; nuocevo; promuovendo. Quante volte i nostri contestatori hanno scritto (e scrivono), per esempio, che “la riunione è stata ‘infuocata’ ”e che il giudice “sta ‘promuovendo’ l’azione penale”? Gli amatori della lingua sanno benissimo che “infuocata” e “promuovendo” sono errori, anzi... orrori. Ma tant’è. Gli “evoluzionisti” della lingua fanno orecchi da mercante e mettono il dittongo là dove non occorre, “appesantendo” la lingua, non “evolvendola” come sostengono (con un pizzico di ipocrisia?). No, amici, rimandiamo al mittente le accuse: gli affossatori della lingua siete voi, con gli strafalcioni che quotidianamente ci “propinate”. Tempo fa una “grande firma”, ospite del “consigliere per gli acquisti”, ha detto (citiamo a memoria): “Bisogna finirla col pretendere dai giornali la correttezza del linguaggio; chi vuole una lingua ‘pulita’ legga i testi universitari” (certi docenti di oggi...). Cosa rispondere? Nulla. Non ci sono parole, anzi, ci sarebbero, ma le teniamo per noi. Diciamo solo, e insistiamo, che i giornali hanno l’obbligo morale di rispettare alcune regole elementari che... regolano la nostra lingua, come quella che “proibisce” l’uso del verbo “iniziare” se non c’è un soggetto animato. In casi dubbi si può ricorrere al verbo “cominciare” (o “incominciare”). In questo caso, però, nasce un altro problema sull’uso corretto del futuro e del condizionale: comincerà o comincierà, comincerei o comincierei? Con o senza la “i”? Questo è il dilemma!

 

martedì 1 marzo 2016

Prendere un granchio a secco

La locuzione trattata ieri, "prendere un granchio", ci ha richiamato alla mente quest'altra, "prendere un granchio a secco". Questo modo di dire, indubbiamente poco conosciuto, e di conseguenza raramente adoperato, si usa - come spiega il lessicografo Pietro Giacchi - allorché si vuole mettere in risalto il fatto che una persona è rimasta con il dito "schiacciato" tra due corpi, in una sorta di morsa. Non vi è mai capitato, cortesi amici,  di "prendere un granchio a secco", di rimanere, cioè, con un dito schiacciato tra lo stipite e la porta? Ma vediamo come spiega  il Giacchi l'origine dell'espressione: «I granchi stanno piú spesso sott'acqua, ed allora si pigliano dalla parte di dietro senza pericolo d'offesa; ma qualora ridotti alla lor buca asciutta  mordono la mano che colà si caccia, da che abbiamo le due branche mordenti di rimpetto ai diti che s'avanzano».

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Ancora un'altra parola corretta data, invece, come scorretta dal correttore ortografico di "Virgilio" (Sapere.it): lagrima.


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