giovedì 30 aprile 2015

(Piangere) Lacrime di coccodrillo

Il modo di dire, in senso traslato, vuol significare un pentimento finto o, comunque, tardivo. La locuzione, diciamolo subito, non è legata al fatto che il coccodrillo pianga veramente dopo aver compiuto il "misfatto" ma al comportamento dell'animale che, mangiando prede di enorme mole, ha una difficile digestione e cade in un torpore che fa ritenere il grosso rettile essere in uno stato di abbattimento e... pentimento. Quanto alle famose "lacrime", leggiamo assieme una curiosa favola narrata da Jean-Pierre Claris de Florian, "Enciclopedia della fiaba": «Due graziosi fanciulli giocavano un giorno sulle rive del Nilo. Raccoglievano sassi piatti e rotondi e si divertivano a farli rimbalzare sull'acqua azzurra del fiume. Ed ecco che un mostruoso coccodrillo emerse all'improvviso lí presso a fauci spalancate e, afferrato uno dei bimbi, se lo divorò, mentre il compagno fuggiva gridando disperatamente. Aveva assistito a quella scena un probo storione che, tra lo sdegno e l'orrore, si tuffò di colpo nel piú profondo delle acque; se non che, udendo il colpevole gemere e singhiozzare si commosse nel suo mite cuore e pensò: "Il mostro è colto dai rimorsi. Ne sia lodata la provvidenza. Meglio sarebbe che questi delitti non venissero compiuti; tuttavia è già grande cosa che lo scellerato rimpianga la propria colpa. L'istante è propizio. Lo persuaderò almeno ad espiare il delitto e a giurare di non commetterne piú». E risalito a galla nuotò verso il coccodrillo. «Piangi! - gli gridò - Piangi il tuo misfatto! Ringrazia gli Dei che ti mandano il rimorso, il quale strazia, ma purifica. Disgraziato! Divorare un bambino! Il mio cuore ne freme tuttora. Ma anche il tuo ne piange...». «Sí - l'interruppe il coccodrillo sempre singhiozzando - sí, piango per la rabbia di non aver potuto acciuffare anche l'altro». Di significato affine le espressioni "Fare come il gatto, che prima ammazza il topo e poi miagola"; "Fare prima il morto e poi piangerlo" e infine "Piangere con un occhio solo".


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Una mostruosità linguistica scovata in "Sapere.it" (De Agostini):

succube
n.m. e f. [pl. -i], o succubo n.m. [f. -a; pl.m. -i, f. -e] 1 nella credenza medievale, demone che prendeva l’aspetto di donna per accoppiarsi durante la notte con gli uomini 2 che soggiace alla volontà altrui: un uomo succube della moglie

¶ Dal lat. tardo succuba(m) ‘concubina’, propr. ‘che giace sotto’, comp. di sub- ‘sub-’ e la radice di cubare ‘giacere’, con cambio di genere, sul modello del fr. succube.

Nota d'uso

· La variante succubo è stata ricavata dalla forma plurale succubi, ma è meno corretta.

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È tutto il contrario. La forma corretta è succubo, con il femminile succuba (e i rispettivi plurali). La variante "bisex" succube in buona lingua è da evitare.

Si veda, anche, il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia.


 

Dimenticavamo. Se si cerca "succubo" su "Sapere.it" non si ha alcuna occorrenza. Allucinante.
 Hai trovato 0 risultati per "succubo"

La "Garzantilinguistica.it", invece (sempre della De Agostini), al lemma succubo rimanda a "succube". Non ci sono parole.
 
 












 
 
 
 
 

 
 
 
 

 



martedì 28 aprile 2015

La lardite

Probabilmente buona parte degli amici blogghisti si imbatte per la prima volta con il termine "lardite" perché non è attestato nei comuni vocabolari dell'uso e, forse, è sconosciuto anche a chi, per lavoro, dovrebbe conoscerlo. Cominciamo con il dire che non ha nulla che vedere con il... lardo. Che cosa indica, allora, il vocabolo suddetto? Si chiama cosí una pietra molle, verdastra, adoperata dai sarti per segnare sulla stoffa le parti da tagliare e le cuciture da fare. Si veda anche qui.

lunedì 27 aprile 2015

Il serfedocco

La parola proposta da questo portale: serfedocco. Chi è costui? Uno smemorato, uno scioccone e simili.

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Pregiatissimo prof. Raso,
 il caso ha voluto che mi imbattessi nel suo sito, restandone "ammaliato". Mi consenta di esprimerle i miei più vivi complimenti per il suo encomiabile "servizio" al... servizio degli appassionati di lingua. Io sono tra costoro. Ne approfitto per una curiosità linguistica. Perché la donna che esercita il più antico mestiere del mondo si chiama "troia"?
 Grazie in anticipo per l'eventuale risposta e voglia gradire i miei sentimenti di ossequio.
 Ambrogio S.
Milano
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Gentile Ambrogio, la ringrazio per le sue belle parole, sono di sprone a fare sempre di piú e meglio. Quanto alla sua curiosità, clicchi qui. Dimenticavo. Troia è anche una ridente cittadina pugliese in provincia di Foggia i cui abitanti sono... troiani (come nell'Iliade).

domenica 26 aprile 2015

Il forbannuto

Un'altra parola, della nostra bellissima lingua, da salvare o meglio da "rispolverare" e rimettere a lemma nei vocabolari:  forbannuto. Aggettivo e sostantivo che significa "bandito".

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Due parole due su "meglio" perché potendosi adoperare e in funzione avverbiale e in funzione aggettivale è spesso causa di errori. Con valore avverbiale non può essere sostituito con "piú bene" e in funzione aggettivale non può prendere il posto di "migliore". È tremendamente errato, per tanto, dire e scrivere, per esempio, "il meglio negozio del paese" e "la meglio cosa che si poteva fare". Le sole forme corrette - secondo la legge grammaticale - sono: "il miglior negozio..." e "la migliore cosa...". Naturalmente è corretto il suo uso come sostantivo maschile invariabile: ecco il meglio che la città offre.


 

sabato 25 aprile 2015

Venticinque aprile

 
 
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La parola proposta da questo portale: lutifigulo, vale a dire vasaio.
 

venerdì 24 aprile 2015

Essere giú di corda

Questo modo di dire - di uso prettamente familiare - si adopera allorché si vuole mettere in evidenza uno stato di "abbandono psicologico": «Lasciamo stare, Mariella, sono giù di corda; mio figlio, nonostante i miei sforzi per aiutarlo, non è riuscito a prendere quel benedetto "pezzo di carta" e ora, con molta probabilità, dovrà partire per il servizio militare (quando era obbligatorio) e non so se, una volta terminata la leva, avrà ancora la voglia e la pazienza di riprendere gli studi interrotti. Sono proprio avvilito». "Essere giù di corda" significa, quindi, essere avviliti, abbattuti, "esser vuoti dentro" e non avere la forza di agire o reagire. Ma cosa ha che vedere la corda con la suddetta locuzione? Semplicissimo. Si tratta - come avviene spesso per i modi di dire - di un traslato. La corda, infatti, è quella che serviva (serve?) per dare la carica agli orologi a contrappeso. Quando questo (e la corda che lo regge) si trovava in basso l'orologio era scarico e per farlo funzionare nuovamente occorreva "tirar sú " la... corda.

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La parola proposta da questo portale: ranco.

giovedì 23 aprile 2015

Scanicare

Ancora un verbo che ci piacerebbe fosse "riesumato" e rimesso a lemma nei vocabolari dell'uso: scanicare. Si usa, anzi si usava questo verbo per indicare lo sgretolarsi dell'intonaco dai muri e, in senso figurato, il distaccarsi di qualsivoglia cosa. Quindi "scrostarsi", "sgretolarsi". Se non cadiamo in errore si può trovare ancora soltanto nel GDU del De Mauro.

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La parola del giorno proposta da "Unaparolaalgiorno.it": dissimulare.

martedì 21 aprile 2015

Fare una cosa con tutti i crismi

Ci spiace veramente dovere "attaccare", di tanto in tanto, gli operatori dell'informazione, ma non possiamo fare altrimenti. Abbiamo letto, su un settimanale, una frase che ci ha fatto sobbalzare sulla poltrona (fortunatamente non è servito il cardiotonico che abbiamo sempre a portata di mano quando leggiamo i giornali o ascoltiamo i notiziari radiotelevisivi): «Finalmente, abbandonati gli antichi odi, l'ospite è stato ricevuto con tutti i carismi». Il cronista, non c'è dubbio, intendeva "crismi". Come si può confondere il crisma con il carisma? Ma tant'è. Si dice, quindi, "con tutti i crismi". Vediamo, dunque, come è nata la locuzione che - per la verità - sarebbe bene non adoperare essendo di uso prettamente popolare. Il crisma, anzi il "sacro crisma" è un unguento a base di olio d'oliva e simboleggia la dolcezza e la forza. È anche un balsamo aromatico e rappresentando il "profumo" della virtù e della grazia viene adoperato dalla Chiesa per la consacrazione della pietra dell'altare e in tante altre funzioni come la Cresima, il Battesimo e per la consacrazione del vescovi e dei sacerdoti. Il crisma è, quindi, il "segno d'approvazione" ecclesiastica e, per estensione, è divenuto, in senso figurato, il simbolo di "approvazione ufficiale" anche al di fuori dell'ambito della Chiesa. Fare una cosa con tutti i crismi significa, per tanto, farla in modo ineccepibile seguendo tutte le disposizioni, i regolamenti e simili.

lunedì 20 aprile 2015

Chiuggare

Il verbo che avete appena letto, chiuggare, anche se non attestato nei vocabolari dell'uso è "conosciuto" inconsciamente e messo in pratica da tutti coloro che si occupano di agricoltura. Il suddetto verbo significa, infatti, "calpestare", "battere il terreno (anche con i piedi)" attorno a un albero dopo averlo piantato.

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E a proposito di verbi, due parole su "irridere" perché la quasi totalità dei vocabolari lo attesta solo come transitivo. Può essere, invece, sia transitivo sia intransitivo. È transitivo quando sta per deridere, schernire e si costruisce con il complemento oggetto: lo irrisero tutti; è intransitivo, invece, quando si usa con il significato di mostrare disprezzo e simili: irrisero alla sua bontà.

sabato 18 aprile 2015

Una "mostruosità linguistica" (2)

Riallacciandoci alla "mostruosità linguistica" di ieri (uso "distorto" dei verbi giustiziare e assassinare) ce ne sono altre che la stampa ci "propina" a ogni piè sospinto. Vediamone qualcuna. Cominciamo con il verbo "comminare", adoperato sempre a sproposito, soprattutto dai cronisti sportivi. Leggiamo spesso sulla stampa (ma l'ascoltiamo anche nei notiziari radiotelevisivi) che «la commissione disciplinare ha comminato due turni di squalifica al calciatore Sempronio», mettendo in allarme i tifosi. Costoro, invece, se sono ben ferrati in lingua (al contrario dei cronisti) debbono rimanere tranquilli: la commissione disciplinare ha solo "minacciato" di squalificare il giocatore. Sí, questo il significato proprio del verbo. Comminare non significa affatto "dare", "erogare", "infliggere" come la maggior parte degli operatori dell'informazione e, ahinoi, anche "gente di cultura" ritengono. Il verbo in questione è il latino "comminari", formato con "cum" e "minari" che significa "prevedere", "minacciare". Comminare una pena significa, per tanto, "minacciarla collettivamente" ('cum', "prefisso collettivo"), "prescriverla", "prevederla", non infliggerla. Alla luce di quanto sopra chi può comminare una pena, vale a dire stabilirla, prevederla, prescriverla, sancirla non può essere che la legge, e per questa il codice: per il delitto di rapina a mano armata il codice "commina" (prevede, stabilisce) la reclusione da 10 a 20 anni. Il codice, dunque, commina; il giudice (la commissione disciplinare), invece, applica ciò che il codice, appunto, prevede (commina). La commissione disciplinare, quindi, non può comminare una squalifica, può solo applicare ciò che i regolamenti sportivi comminano, "prevedono" per coloro che si rendono colpevoli di atti illeciti. E che dire dell'espressione "essere nell'occhio del ciclone" volendo significare che una persona si trova nei guai? Altra mostruosità linguistica. Perché? Perché la locuzione vale esattamente il contrario. L' "occhio del ciclone" è la regione centrale dell'anello dell'uragano, dove il vento è molto moderato e la pioggia quasi inesistente. Chi si trova dentro l' "occhio" sta molto meglio, quindi, di chi sta fuori.

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Il nuovo vocabolario De Mauro in rete al lemma comminare dice anche "infliggere una pena", ma come abbiamo visto non è questo il significato del verbo.
Il medesimo "errore" nel vocabolario Treccani in linea.

venerdì 17 aprile 2015

Una "mostruosità linguistica"

Sí, ha ragione un cortese lettore che ci ha inviato una lettera nella quale definisce una "mostruosità linguistica" l'uso errato che la stampa (ma non solo) fa dei verbi "giustiziare" e "assassinare". Ma il lettore non deve meravigliarsi piú di tanto; dovrebbe aver fatto il callo, ormai, a questo "assassinio linguistico", anche se sappiamo benissimo di pretendere molto da una persona "linguisticamente onesta". Come si fa, infatti, a restare insensibili di fronte a un delitto? Soprattutto quando gli autori dell'assassinio non danno prova alcuna di pentimento? Questa gente dovrebbe essere "giustiziata" o "assassinata"? In senso metaforico, ovviamente. Giustiziata, senza ombra di dubbio. Giustiziare significa, infatti, "punire eseguendo una condanna a morte". E chi può punire, quindi "giustiziare", se non un'autorità costituita? Se esistesse, per assurdo, la pena capitale contro i colpevoli di lesa lingua lo Stato (autorità costituita) avrebbe il diritto-dovere di... giustiziarli, non di "assassinarli", anche se ai fini pratici purtroppo non cambierebbe nulla. È un gravissimo errore, quindi, scrivere in un articolo di cronaca nera che «il malvivente è stato giustiziato dai suoi complici»; è stato assassinato, non giustiziato, in quanto gli autori del delitto o, se preferite, della "punizione" non sono un'autorità costituita, la sola, ripetiamo, "abilitata" a giustiziare. Vediamo, ora, sotto il profilo prettamente linguistico, come sono nati i due verbi che la stampa ritiene sinonimi ma che tali non sono. Il primo, giustiziare, è la traduzione del francese medievale "justicier", tratto dal latino "iustitia" (da "iustum", secondo il diritto; e chi ha il dirìtto se non, appunto, un'autorità?). L'altro, assassinare, è tratto dalla voce turca "hasciashin", non dal latino, come ci si aspetterebbe. Vediamo, per sommi capi, la storia di queto verbo. Nel secolo XIII gli aderenti a una setta musulmana, nata in Persia, divennero "famosi" per le loro azioni violente e terroristiche perpetrate ai danni della Siria, della Palestina e della Mesopotamia. Questi "eroi" si macchiavano dei piú atroci delitti, impensabili in persone normali: non erano banditi ma belve assetate di sangue umano che uccidevano anche quando nessuno li contrastava. Per "caricarsi" prima di compiere le loro imprese sanguinarie facevano uso di una droga arrivata, purtroppo, fino a noi: l'hashish. I malcapitati, quando li vedevano arrivare, li chiamavano "hasciashin", 'bevitori di hashish". Il termine, giunto a noi, è stato adattato in "assassini", donde il verbo "assassinare". Giustiziare e assassinare sono sinonimi dunque? Sotto il profilo linguistico no, sotto quello "pratico" sí.  

giovedì 16 aprile 2015

Le nozze morganatiche


Colendissimo Prof. Raso,
 la seguo da sempre, fin dai tempi del "Cannocchiale", anche se per un certo "pudore linguistico" non le ho mai scritto. Lo faccio ora, spinto da mio figlio che desidera sapere che cosa sono le nozze morganatiche. Grazie se avrò una risposta.
Nell'attesa la saluto cordialmente.
Edoardo T.
Lucca
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Cortese Edoardo, l'argomento è stato trattato sul "Cannocchiale" qualche anno fa. Probabilmente le è sfuggito. Le do il collegamento.


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Ecco un altro termine non attestato nei vocabolari dell'uso: adiàstate. Il vocabolo, prettamente tecnico, è adoperato in matematica e significa "incommensurabile", "difficile a misurarsi" e, per estensione, "indistinguibile".

martedì 14 aprile 2015

La tragofonia

Cortese dott. Raso,
 ho scoperto da poco il suo impareggiabile e istruttivo blog. Ho visto che si possono porre dei quesiti ai quali lei risponde con gentilezza e competenza. Ne approfitto, quindi, per porle una domanda che non ha trovato risposta nei dizionari consultati e nei siti che si occupano di lingua italiana. Vorrei sapere, dunque, che cosa è la "tragofonia", termine che ho trovato in un vecchio libro. Grazie in anticipo e complimenti per il suo sito.
Distinti saluti.
 Edoardo P.

 Vicenza

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Gentile amico, il vocabolo, infatti, non è a lemma nei comuni vocabolari dell'uso. Significa "forte, accentuato balbettamento", soprattutto infantile.


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Da "Domande e risposte" del sito Treccani:

"Cappuccetto Rosso disse per andare dalla nonna devo passare per il bosco." Il dubbio è relativo a PER ANDARE, da me analizzato come complemento di fine, mentre l'insegnante l'ha corretto in Predicato verbale dicendomi che si tratta di un predicato verbale finale. Potreste spiegarmi la differenza?

Bisogna chiarire una cosa innanzi tutto: l'analisi logica si occupa di individuare la funzione sintattica di ciascun costituente all’interno di una frase semplice (o di una proposizione): soggetto, predicato verbale o nominale, attributo, apposizione, complementi. Quando vogliamo analizzare gli elementi di ordine superiore che compongono un periodo, che è costituito di più proposizioni, teniamo conto non più dei singoli costituenti la frase semplice, ma delle caratteristiche delle proposizioni che compongono il periodo. Quando abbiamo una proposizione? Quando c'è, esplicita o implicita, una forma verbale (con piena funzione verbale, ovviamente). Ecco, nel caso che ci viene posto, non siamo più nel campo dell'analisi logica (costituenti della frase semplice o proposizione), ma nel campo dell'analisi del periodo. Il periodo è composto da tre proposizioni, individuate da altrettanti predicati, disse, andare, devo passare (il verbo modale dovere fa blocco sintattico con andare). Non solo: dopo quel disse andrebbero messi i due punti, per indicare lo stacco netto, anche sintattico, dal discorso diretto seguente. All'interno del discorso diretto, abbiamo due proposizioni: Devo passare per il bosco / per andare dalla nonna. La prima proposizione è la principale indipendente, detta anche reggente perché "regge" un'altra proposizione, ma non è reatta (e non dipende) da nessun'altra proposizione; la seconda, per andare dalla nonna, è una secondaria dipendente finale implicita (implicita perché il verbo è presente in un modo indefinito).

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Là dove dice «... (il verbo modale dovere fa blocco sintattico con andare)...» il verbo andare deve essere corretto in "passare". Abbiamo segnalato la svista alla Redazione del portale.





lunedì 13 aprile 2015

Tenere in ponte...

Molti lettori - senza saperlo - hanno provato (e provano) sulla loro pelle il senso di quest'espressione in quanto è affine a quella piú conosciuta e adoperata, "stare sulle corde" che significa - come si sa - "essere in apprensione", "essere in attesa di una risposta", "stare tra il sí e il no", insomma "stare sul chi vive". Che cosa c'entra il ponte con la locuzione? Ce lo spiega Ludovico Passarini (il "re" dei modi di dire): «... presa l'immagine o dal ponte stretto di un'asse di legno sopra l'acque per passarle; od anco, ch'è piú probabile, dal ponte levatoio posto nel fossato circondante le antiche rocche; il qual ponte, restando ordinariamente sospeso, non veniva abbassato per dare il passo a un inviato o a persona sconosciuta, se il castellano, o il signore della rocca non lo concedeva. Intanto che questi venisse avvertito, o risolvesse, il forestiere doveva star lí "in ponte", ossia era "tenuto in ponte" ad aspettare col dubbio penoso di vederlo o no calato, e per un tempo piú o meno lungo, tirasse vento o piovesse alla dirotta. Lo stare come sospeso nell'uno e nell'altro ponte è situazione penosa; e simile a questa è lo stato di chi aspetta una notizia interessante. Dicesi anche delle cose».

È interessante - in proposito - riportare anche la spiegazione circa l'origine del modo di dire che dà il Minucci, uno dei notisti al "Malmantile racquistato" (un poema burlesco). Secondo questi, dunque, l'espressione deriverebbe dall'usanza degli antichi Romani di tenere le ceste (oggi diremmo le urne) per l'elezione dei magistrati sopra alcune tavole che chiamavano "pontes": «Il mio voto è ancora nelle ceste, o coperto, e per conseguenza io sono sospeso, ed incero di quel che abbia a essere di me». E conclude (il Minucci) sostenendo che da questa usanza, appunto, è nato il modo di dire che «ci serve poi, questo, detto "Tenere uno in ponte" per esprimere "trattenere uno colle speranze, o con altro" secondo il subietto».



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Stronzare

Il verbo che avete appena letto, e che non tutti i vocabolari attestano, non ha il "sapore" volgare come potrebbe sembrare di primo acchito: era usatissimo fino a un paio di secoli fa e significa "diminuire", "tagliare", "restringere", "ridurre","decurtare" e simili. "Per tornare in pareggio occorre stronzare le spese". Qui la coniugazione.


sabato 11 aprile 2015

L'acquarzente e il penetotrofio

Tra le parole cadute nell'oblío e cassate dai dizionari dell'uso ci piace menzionare l'acquarzente e il penetotrofio. Il primo termine tutti lo conoscono, inconsciamente, perché ne fanno uso sporadicamente o quotidianamente. Il vocabolo indica, infatti, una bevanda alcolica ad alta gradazione. Il secondo, fortunatamente, lo conoscono - sempre inconsciamente - poche persone perché designa un ospizio per poveri e mendicanti.
Per l'origine dei due sostantivi si veda qui e qui.

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Deputatessa

Per il vocabolario Treccani il sostantivo, anche se di uso non comune, non cozzerebbe contro la grammatica italiana:


 3. s. m. (f. -a; anche -éssa, non com.) In senso stretto, membro di uno dei due rami del Parlamento italiano, detto appunto Camera dei deputati. L’appellativo è ora esteso anche ai membri del Parlamento europeo (cioè dell’assemblea dell’Unione europea) e, nell’uso com., ai membri dei consigli regionali.


Per l'enciclopedia, sempre della Treccani, deputatessa, invece, è di uso comune:

Parlamentare e scrittrice inglese (Danville, Virginia, 1879 - Grimsthorpe, Lincolnshire, 1964). Sposò in seconde nozze (1906) il visconte Waldorf Astor, conservatore; nel 1919 fu la prima deputatessa ai Comuni, conservando ininterrottamente il suo seggio fino al 1945. Per le sue relazioni mondane e l'ospitalità concessa nella sua tenuta di Cliveden anche a diplomatici nazifascisti, lady A...

Uomo politico e pubblicista inglese, nato nel novembre 1897 a Tredegar (Galles); figlio d'un minatore e minatore egli stesso dai 13 anni in su, quindi organizzatore sindacale, consigliere provinciale del Monmouthshire dal 1928 e deputato dal 1929, fu con la consorte, la deputatessa scozzese Jennie Lie, tra i fondatori del settimanale socialista ed internazionalista Tribune (1937) e, durante la guerra, fra i più decisi avversarî del "vansittartismo" in politica estera, della...

Femminista e scrittrice, nata a Langhorne presso Mirador (Virginia) il 19 maggio 1879; sposò in seconde nozze l'autorevole conservatore britannico visconte Astor. Lady A. fu nel 1919 la prima deputatessa ai comuni e conservò ininterrottamente il seggio per il collegio di Sutton a Plymouth (quindi passato alla socialista Lucy Middleton) fino alle elezioni, cui non si presentò, del 5 luglio 1945. Per le sue relazioni e l'ospitalità concessa nella sua tenuta di Cliveden..


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Secondo il nostro modesto parere cozza, invece, eccome. Perché trasgredisce la legge grammaticale secondo la quale i sostantivi maschili in "-o" nella forma femminile mutano la desinenza in "-a": sarto, sarta; deputato, deputata.


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Nota d'uso (dal sito "Sapere.it" - De Agostini)

Il femminile regolare di deputato è deputata, già ampiamente usato nella lingua italiana. Alcuni preferiscono chiamare deputato, al maschile, una donna che sia stata eletta alla Camera dei deputati. Si tratta di una scelta che non ha basi linguistiche ma sociologiche, e che comunque può creare, nel discorso, qualche problema per le concordanze.
 

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Da "Viva la grammatica!" di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota:
«...Se l'avvocata viene chiamata avvocatessa, la deputata deputatessa e la vigile vigilessa, a quelle parole viene aggiunta una sfumatura ironica o peggiorativa, un sarcasmo col quale si vuole screditare la donna che svolge quella professione ...»

venerdì 10 aprile 2015

AccoMiatare o accoMMiatare?

Cortese dottore,
 seguo sempre con molto interesse le sue "noterelle" sul buon uso della lingua italiana. A questo proposito avrei un quesito da porle. La docente di materie letterarie di mio figlio (I liceo scientifico) si è "scandalizzata" e ha redarguito mio figlio perché in un componimento in classe ha scritto che "mi sono accommiatato dagli amici sul tardi, dopo una bella serata in pizzeria". Per questa insegnante il verbo in questione (accommiatare) si scrive con una sola "m". È proprio cosí? È un errore da matita blu la grafia con due "m"?
 Attendo con fiducia il suo verdetto.
 Grazie e cordiali saluti.
Giovanni P.
 Lecco

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Gentile Giovanni, il verbo in questione si può scrivere con una o due "m" (accomiatare e accommiatare), nell'uso comune, però, prevale la grafia con una sola "m". Suo figlio, quindi, non ha commesso alcuno strafalcione. Anzi con due "m" sarebbe "piú corretto" perché è un verbo denominale provenendo dal sostantivo "commiato". Stupisce l'ignoranza linguistica della docente. Ma la scuola di oggi, purtroppo, è ricca di insegnanti non degni di tale nome, e ne fanno le spese i discenti e la nostra povera lingua, sempre piú calpestata. Per sua maggiore "tranquillità" veda qui, qui e ancora qui.

 

giovedì 9 aprile 2015

Il "sesso" di eco: divergenze di opinioni (Treccani)


Abbiamo riscontrato una divergenza di "opinioni grammaticali", nel sito della Treccani, tra il vocabolario e l'enciclopedia, circa il "sesso" del sostantivo 'eco". Per l'enciclopedia, il predetto sostantivo nella forma singolare è femminile; per il vocabolario, invece, nel singolare è ambigenere.

 

Enciclopedia Treccani

La particolarità di questo sostantivo è che cambia di genere tra singolare e plurale.
• Il singolare del sostantivo eco, contrariamente a quel che la terminazione in -o potrebbe far pensare, è di genere femminile
L’evento ha avuto una vasta eco
L’iniziativa ha avuto un’eco notevole (con elisione)
• Il plurale, invece, è il maschile echi
Gli echi di guerra

 
Vocabolario Treccani

 
èco (ant. ècco) s. f. o m. [dal lat. echo, gr. ἠχώ] (pl. echi, unicamente masch.). – 1. a. Fenomeno acustico per il quale un suono, riflettendosi contro un ostacolo, torna a essere udito nel punto in cui è stato emesso, nettamente separato dal suono che lo ha provocato e tanto più distintamente avvertito quanto più l’ostacolo è distante (purché naturalmente non lo sia tanto da rendere il suono, per fenomeni di assorbimento, difficilmente percepibile); più genericam., tutto ciò che l..

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Chiariamolo subito: il predetto sostantivo, nel singolare, può essere tanto maschile quanto femminile: un eco lontano o un'eco lontana. Il maschile si spiega con la terminazione in "-o", tipica dei sostantivi maschili, appunto; il femminile è dato, invece, dalla provenienza mitologica del termine, come la spiega, magistralmente, Ottorino Pianigiani. Si veda anche qui.

 
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Nota d'uso (dal sito "Sapere.it")
 La parola eco, nonostante finisca per -o, è femminile, come le parole greca e latina da cui deriva; tuttavia talvolta viene usata al maschile e questo si spiega con il fatto che in italiano i nomi che finiscono per -o sono in maggioranza maschili; al plurale eco è quasi sempre maschile (gli echi).

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Siamo esterrefatti. Nella forma plurale il sostantivo in questione è sempre maschile, non "quasi sempre".

 

 

 

 

mercoledì 8 aprile 2015

A proposito di "io do" o "io dò"


A proposito del verbo "dare", la cui prima persona singolare del presente indicativo si può anche accentare (io do o io dò, dunque), del quale ci occupammo - su questo portale - il 13 marzo scorso, "contestando" la risposta degli esperti della Treccani al quesito posto da un lettore, ci corre l'obbligo, per onestà, di pubblicare la replica del "responsabile linguistico" del sito Treccani.

Ci permettiamo di dissentire non tanto dalle singole osservazioni critiche avanzate dal nostro attento lettore, ché sarebbe troppo facile enumerare i dizionari e le grammatiche di un certo affidamento che non considerano do e dai, voci del verbo dare, bisognevoli di accento grafico, ma dall'atteggiamento di fondo che caratterizza le considerazioni del nostro lettore: l'atteggiamento di chi, in questo caso, sembra interpretare la discussione sulle questioni di norma come una dialettica in cui siano in gioco più l’autorità che il merito della questione.

Ora, siamo noi i primi a sostenere che ciascuno deve essere vigile nelle scelte, libero e perciò responsabile, capace di critica e autocritica. Molte volte le segnalazioni e le critiche dei nostri lettori sono state utili, anche per intervenire limando, correggendo, aggiornando quanto, in questa o in altre sedi, avevamo sostenuto. Quando, però, scriviamo che “do” non si accenta, non stiamo emettendo sentenze inappellabili, né siamo dominati dalla iattanza di chi assume toni apodittici, ma, semplicemente, riassumiamo in una sintetica indicazione pragmatica una tendenza prevalente nella letteratura in argomento e – cosa sempre importante – prevalente nell’uso. Il DOP, per noi, è un eccellente e autorevolissimo testo di riferimento, al quale ci atteniamo 9 volte e mezzo su 10, ma non è la bibbia (come non è la bibbia alcun testo prodotto dalla Treccani, nonostante il valore dei suoi contributori intellettuali). Tra l'altro il DOP, nel caso in questione, perlomeno segnala dò come variante “meno comune”. Nella grammatica di Luca Serianni Italiano (con la collaborazione di A. Castelvecchi), che certamente è tenuta per molto autorevole, v'è scritto (cap. I, par. 177b): «Superfluo invece l'accento [...] su dò verbo (per distinguerlo dalla nota musicale; confusione molto improbabile». Questa indicazione ci ha sempre convinto. Sappiamo bene che dò viene da qualcuno usato anche con l'accento. Ciò non desta in noi senso di scandalo; caso mai, in molti, oltre a noi, solleva legittimi dubbi: la nostra lingua è piena di usi oscillanti in una materia, come quella della grafia, che, da Bembo in poi - e nonostante la sua iniziale e importante opera normatrice e il successivo secolare lavorìo di tipografi e grammatici - è rimasta oscillante fino a ieri e ancora oggi, talvolta, oscilla: vogliamo ingaggiare un'altra battaglia su se stesso o sé stesso? Conviene  attenersi a una norma faticosamente messa in piedi nel tempo, essendo, tra l'altro, la grafia oggetto di grande attenzione sociale e i comportamenti devianti fortemente censurati.

Tra l'altro, dire che si scrive in un certo modo e che questa o quella parola «non ha bisogno di accento grafico» non significa imporre niente a nessuno. Nemmeno a chi ha in pregio il parere di un unico pur valido dizionario come il Sandron, al punto di erigerlo al rango di testimonio decisivo, capace da solo di sbaragliare una serie di certificate posizioni di altro tenore. Curiosamente, sembra che si sia poi d'accordo su un fatto, ben espresso dal nostro lettore, al termine della sua missiva elettronica: nessuno, entro certi limiti, commette un "reato linguistico". Ci trovassimo a scuola, i casi di do e dai sarebbero occasione non per matitate rosse o blu, ma per un ragionamento di più ampio respiro con gli alunni sulle caratteristiche diacroniche, sincroniche e sociolinguistiche della (orto)grafia nella nostra lingua. Ci prenderemmo poi la responsabilità, però, di consigliare a ragazzi e ragazze di continuare a scrivere do e dai senza l’accento grafico, proprio perché oggi ci interessa promuovere gli usi più stabili e porre al riparo gli scriventi da ogni dubbio di comportamento inadeguato. Nel giorno in cui l'ascoliano moto operoso delle menti collettivo portasse a una diversa indicazione normativa in merito a questi due tratti (do e dai vanno accentati per iscritto!), ne prenderemmo atto.

Ultima notazione: è sempre bene distinguere e vedere caso per caso. Dài con l'accento non dà (questo sì, con l’accento…) per niente fastidio: libera scelta (come per tutti gli accenti all'interno di parola): semplicemente ricordiamoci che non ce n'è bisogno a fini distintivi (dai preposizione articolata o, tanto meno, imperativo anziché indicativo). Per l'accento sui monosillabi, ci atteniamo alla grammatica di Serianni (cap. I, par. 177), perciò riteniamo do la forma valida: indulgere all’accentazione potrebbe indurre a catena altre accentazioni improprie, fondate su sofisticherie arcidotte (sù avverbio accentato per distinguerlo da su preposizione, per esempio), di cui, francamente, per quanto già argomentato, non si sente proprio il bisogno.

 Silverio Novelli
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Prendiamo atto della circostanziata replica ma ci permettiamo di far notare al dr Novelli che si dissente "da" qualcuno "su"  (o "in") qualcosa. Egli scrive: « Ci permettiamo di dissentire non tanto dalle singole osservazioni critiche avanzate dal nostro attento lettore...». Secondo la "legge grammaticale" avrebbe dovuto scrivere: «... di dissentire non tanto "sulle" singole osservazioni...». Lo stesso vocabolario Treccani si attiene, negli esempi, alla suddetta "legge grammaticale": dissentire v. intr. [dal lat. dissentire, comp. di dis-1 e sentire «essere d’opinione»] (io dissènto, ecc.; aus. avere). – Sentire, pensare in maniera differente da altri: dissentiva da noi in molti punti; in questo dissento completamente da te; d. nel giudizio, d. su una decisione, ecc. Part. pres. dissenziènte, anche come agg. e sost. (v. la voce).

 

 

martedì 7 aprile 2015

Insultare e denigrare


Sapete cosa facciamo metaforicamente quando denigriamo o insultiamo qualcuno? No? Vediamolo assieme, allora. Sappiamo benissimo - per "pratica" -  che denigrare significa "diffamare", "screditare", "togliere ad altri il buon nome con volontaria malizia". Quando denigriamo una persona, dunque, le togliamo il buon nome; ma come? Tingendolo di nero (metaforicamente). Denigrare propriamente vale, infatti, "tingere di nero" provenendo  pari pari dal latino 'denigrare', composto della particella intensiva "de" e "niger, nigri", nero. Adoperato estensivamente nel senso di "annerire il buon nome" il verbo in oggetto ha acquisito in lingua volgare (italiano) il significato figurato di "diffamare" tingendo di nero, appunto, il buon nome di una persona. Quando, invece, insultiamo qualcuno, vale a dire l'oltraggiamo, l'ingiuriamo, figuratamente gli "saltiamo sopra". Anche questo verbo è pari pari il latino "insultare", forma intensiva di "insilire", 'saltar su', formato con la particella "in" (su, sopra, contro) e "salire" (saltare). Non si dice, infatti, in senso figurato, che «quella persona mi è saltata addosso»? Vale a dire mi ha offeso, ingiuriato. E a proposito di ingiuria, cioè di offesa che lede moralmente, quando la "mettiamo in atto" non facciamo altro che una "cosa ingiusta"calpestando il diritto di una persona. Questo  vocabolo, infatti, è un derivato del latino "iniurius" ('ingiusto'), composto con il prefisso "in-" negativo e il sostantivo "ius, iuris", diritto. L'ingiuria. per tanto, è "tutto ciò che è fatto in onta al diritto di alcuno", quindi vale "danno", "oltraggio", "affronto". L'ingiuria, insomma, è ogni fatto detto o scritto dolosamente per "togliere il buon nome" a qualcuno ed è affine, quindi, ma non "uguale" alla denigrazione.

 

domenica 5 aprile 2015

Risultati immagini per pasqua 2015
 
 
Una serena Pasqua agli amici che seguono le nostre modeste noterelle linguistiche

sabato 4 aprile 2015

ColluTTorio? Per carità, colluTorio


Ancora oggi, molti odontoiatri e molti scrittori sbagliano la grafia del medicamento che serve per l'igiene della bocca. Scrivono, infatti, "colluttorio" (con due "t") in luogo della grafia corretta collutorio (una sola "t").  Il farmaco in questione non ha nulla che vedere con la... colluttazione. Provenendo dal latino "collutus", dal verbo "colluere" ('sciacquare') deve mantenere la stessa radice della lingua di provenienza e tale radice contiene una sola "t".


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Il "fanfarista"

Come si chiama colui che suona  in una fanfara? Non c'è un termine che fa alla bisogna.  Potremmo chiamarlo, per tanto, "fanfarista". Il suffisso “-ista”, sin dall'antichità, si affigge in italiano a basi lessicali verbali e nominali per formare sostantivi che designano attività, mestieri, professioni. Da arte abbiamo ‘artista’; da violino si ha ‘violinista’; da fanfara possiamo avere, benissimo, “fanfarista”.


 
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Concordare

Due parole su questo verbo perché non sempre è adoperato correttamente. Il verbo in esame, dunque, può essere tanto transitivo quanto intransitivo. Nel primo caso ha i significati di: “stabilire una cosa di comune intesa” e “riuscire a mettere d’accordo persone che sono tra loro in dissidio o in urto”, quindi  “comporre divergenze”, “superare contrasti” e simili:  Dopo lunghe trattative le varie fazioni hanno concordato un periodo di tregua; Giovanni e Mario hanno finalmente concordato un comune piano d’azione. Nel secondo caso assume il significato di coincidere: le tue idee concordano, vale a dire coincidono con le mie. In questo esempio il verbo concordare è costruito in modo corretto con la preposizione con. Quando, però, il predetto verbo sta per “convenire”, “essere d’accordo” si deve costruire con la preposizione (semplice o articolata) su: concordo con te su quanto hai detto, sono, cioè, d’accordo con te sulle tue idee. Si è d’accordo (si concorda), insomma, su una cosa, non con una cosa. Quest’ultima preposizione si adopera esclusivamente con le persone: concordo con Luigi su quanto ha esposto. 


giovedì 2 aprile 2015

Un "orrore" della Treccani


Il vocabolario Treccani in rete ha rinnovato la grafica ma non ha emendato l' "orrore" circa il verbo "defatigare":

defatigare (non com. defaticare) v. tr. [dal lat. defatigare, comp. di de- e fatigare «affaticare»] (io defatigo, tu defatighi, ecc.), letter. – Stancare, esaurire le capacità di resistenza di una persona. Part. pres. defatigante anche come agg., che affatica, che logora le forze. Part. pass. defatigato, anche come agg., affaticato, spossato.
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“Defaticare” non è una variante non comune di “defatigare”, ma un verbo a sé stante. Defatigare e defaticare, dunque, hanno  significati diversi. “Defatigare”, con la “g”, è pari pari il latino ‘defatigare’ composto con il prefisso “de-” (che non ha valore sottrattivo) e il verbo ‘fatigare’ (affaticare) e significa “stancare”, “logorare”, “affaticare”. “Defaticare”, con la “c”, è composto con il prefisso sottrattivo o di allontanamento “de-” e il sostantivo “fatica” (‘che toglie, che allontana la fatica’). Si adopera soprattutto nel linguaggio sportivo nella forma riflessiva e significa “compiere determinati esercizi per togliere dai muscoli l’eccesso di acido lattico formatosi in seguito a sforzi prolungati”. Si potrebbe dire quindi, in senso lato, che “defatigare” sta per “procurare la fatica”; “defaticare” per allontanarla, eliminarla.
Altri vocabolari, comunque, sono incorsi nel medesimo “orrore” del Treccani; è in buona compagnia, quindi.
Il Sabatini Coletti in linea, stranamente, "snobba" il verbo.
Vediamo, ora, ciò che dice il vocabolario Gabrielli in rete:

defaticare
[de-fa-ti-cà-re]
(defatìco,
 -chi, -ca, defatìcano; defaticànte; defaticàto)
A v. tr.
SPORT Ridurre l'affaticamento dopo uno sforzo atletico, praticando alcuni esercizi supplementari per eliminare l'acido lattico accumulatosi nei muscoli

B v. rifl. defaticàrsi
SPORT Compiere esercizi per ridurre l'affaticamento muscolare

 
defatigare
[de-fa-ti-gà-re]
(defatìgo,
 -ghi, defatìgano; defatigànte; defatigàto)
v. tr.
1 lett. Stancare molto, affaticare, esaurire le forze:
 questo lavoro potrebbe d. chiunque; fig. defatigare la mente
SIN. stremare, estenuare

2 ant. Molestare

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La parola del giorno proposta dal sito "unaparolaalgiorno.it": asintotico.

 

 

mercoledì 1 aprile 2015

Raccettare

Ancora un verbo relegato nella soffitta della lingua e che ci piacerebbe fosse rispolverato e rimesso a lemma nei vocabolari dell'uso: raccettare. Chi raccetta che cosa fa, dunque? Nulla di sconveniente, tutt'altro. Saluta gli ospiti, molto cordialmente, e si complimenta con loro. Il Tommaseo, però, dà al verbo in oggetto un significato non "molto nobile".


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Bagattella - questa la grafia da preferire per indicare una bazzecola, non bagatella, anche se alcuni vocabolari l'attestano come variante.

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Gli scherzi del "Pesce d'Aprile".