martedì 30 settembre 2014

Buggerare...

Chi non conosce il significato "scoperto" del verbo buggerare? Se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana e leggere alla voce in oggetto: «imbrogliare, truffare, abbindolare, turlupinare» e simili. Per il significato "nascosto", vale a dire quello che sta "dentro" la parola chiediamo aiuto a Enzo La Stella. «Spesso usiamo con leggerezza questo verbo (e i suoi derivati: "ho preso una bella buggerata" o "buggeratura"), che oggi significa imbrogliare, ma è deformazione dell'etnico dei Bulgari, condannati nel Medioevo dalla Chiesa, in quanto eretici. Poiché la pena era la stessa inflitta ai sodomiti e dato che spesso i termini sessuali sono usati per indicare l'imbroglio (si pensi a fregare e a 'infinocchiare'), Buggero o Bulgaro fecero nascere il verbo buggerare, che consigliamo di usare con moderazione o, quanto meno*, con cognizione di causa».

 * Condanniamo quest'epressione adoperata da La Stella. "Quanto meno" è un uso poco schietto. In buona lingua italiana è preferibile dire "almeno", "per lo meno".

sabato 27 settembre 2014

Rimettersi in sella

Il modo di dire che avete appena letto ha molteplici significati: ritornare in ottime condizioni economiche dopo un periodo di stenti; recuperare posizioni di prestigio o tornare in possesso di beni dopo averli perduti; essere guariti da una grave malattia ed essere pronti, quindi, a ricominciare la normale attività. L'espressione adoperata, ovviamente, in senso figurato fa riferimento agli antichi cavalieri medievali, per i quali essere disarcionati e cadere da cavallo durante il combattimento significava andare incontro a morte sicura. Il rimettersi rapidamente in sella costituiva, per tanto, l'unica possibilità di sopravvivenza, ma dato il peso e l'ingombro delle armature era un'impresa tutt'altro che facile, se non impossibile.

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Si presti attenzione al corretto uso del verbo "esaudire" perché molto spesso è adoperato intransitivamente. La sola forma corretta è quella transitiva. Esaudisco la tua richiesta, quindi, non "alla" tua richiesta.

venerdì 26 settembre 2014

Smarronate...

Oggi desideriamo richiamare l'attenzione dei nostri amici lettori su alcune smarronate che quotidianamente "appaiono" sulla carta stampata (ma non solo) e che sono il frutto della presunzione di "coloro che fanno la lingua", le cosí dette grandi firme del giornalismo italiano. A questo proposito il "grido di dolore" lanciato qualche anno fa dall'Accademia della Crusca, circa gli orrori di cui sono infarciti i giornali, non ha ottenuto l'effetto sperato, anzi... Le cause di questo sfacelo linguistico sono molteplici, non ultima la "messa a riposo" dei correttori di bozze. Sí, la quasi totalià dei giornali ha ritenuto opportuno sopprimere - con la scusa della "computerizzazione" - la figura di quel "losco individuo" che con certosina pazienza andava a caccia dei refusi (errori di stampa) e degli "orrori linguistico-grammaticali" degli estensori dell'articolo. Oggi questa rete di protezione non esiste piú, sono venute, cosí, alla luce le magagne tamponate - un tempo - dai correttori. Oggi il giornalista non ha piú il capro espiatorio cui addossare la colpa dei suoi strafalcioni: il "merito" è tutto suo. Sue sono, quindi, le smarronate che leggiamo e che inducono in errore gli studenti sprovveduti. Come il vezzo, per non chiamarlo errore, di adoperare le particelle pronominali "ci si" con alcuni verbi quali rafforzative della coniugazione con soggetto indeterminato: ci si andava, ci si era tutti, ci si era venuti. Quest'uso, dunque, è tremendamente errato. Il "ci" unito al "si" si può usare - ed è corretto - soltanto come forma di soggetto indeterminato con i verbi riflessivi o pronominali: ci si annoia (noi ci annoiamo), ci si vergogna (tutti si vergognano), ci si deve lavare (tutti ci dobbiamo lavare); oppure come complemento di reciprocanza adoperato con la forma del soggetto indefinito: ci si vede domani, vale a dire ci vediamo domani; o, ancora, come avverbio di luogo, con il significato, appunto, di "in questo luogo": a casa tua ci si sta bene. Vediamo altre smarronate tra le quali possiamo includere - senza tema di essere smentiti - l'uso improprio (è un eufemismo) che la stampa fa del verbo "elevare" in cui il suddetto verbo non ha il significato che gli è proprio, vale a dire "portare in alto". Cade, quindi, in un grossolano errore, commette una smarronata il cronista che scrive «gli inquirenti hanno elevato molti dubbi in proposito». I dubbi - fino a prova contraria - non si "portano in alto", si manifestano, si suscitano. Altra smarronata frequentissima che "appare" sulla carta stampata è l'uso del partitivo con la preposizione "con": l'esponente politico è stato inquisito con dei suoi amici. Quel "dei" partitivo deve essere sostituito - in buona lingua italiana - con "alcuni": è stato inquisito con alcuni suoi amici. Potremmo continuare ancora, ma non vogliamo tediarvi oltre misura. Concludiamo queste noterelle, quindi, con un pensiero di Giuseppe Giusti: «L'avere la lingua familiare sulle labbra non basta: senza accompagnarne, senza rettificarne l'uso con lo studio e con la ragione è come uno strumento che si è trovato in casa e che non si sa maneggiare». A buon intenditor, poche parole...

giovedì 25 settembre 2014

Equino, equestre, ippico

A voler sottilizzare gli aggettivi su menzionati non "sarebbero" l'uno sinonimo dell'altro sebbene si riferiscano tutti al cavallo. Ciascun aggettivo, infatti, ha un suo proprio significato. Vediamoli succintamente. Cominciamo con il dire che "equino" ed "equestre" sono di provenienza latina, mentre "ippico" è di origine greca. Equino si riferisce al cavallo (in quanto animale) sotto l'aspetto zoologico (razze equine, coda equina ecc.); con equestre si indica la persona che monta il cavallo, con l'accezione, quindi, "di cavallerizzo, cavaliere" (spettacolo equestre, combattimento equestre, statua equestre e simili). Con ippico, infine, ci si riferisce a tutto l' "apparato" che riguarda le corse di questi animali, come sport (gare ippiche).

mercoledì 24 settembre 2014

Essere poco utile come la mula di Balestraccio

Il significato di questa locuzione - per la verità poco conosciuta - è intuitivo e non abbisognevole, per tanto, di spiegazioni. Ci interessa conoscere l'origine che ricaviamo dal «Nuovo Tesoro di proverbi italiani», di Tommaso Buoni (un autore del secolo XVIII). «Fu Balestraccio povero villano, e come di pochi beni fu costretto per fuggir la fame esercitar l'arte della mola; e avvenga che fosse di tutte le cose male agiato, molto meno era del denaro. Andato al mercato, e veduta una mula vecchia, e perciò da tutti fuggita; ed ei con poche parole, e con meno di quelli che avea la comprò; e cosí la povera mula che faticato avea per tutta la gioventú, pensando di pigliar riposo in vecchiezza, fu guidata da messer Balestraccio al mulino per faticare piú gagliardamente. Ma quantunque Balestraccio facesse buone alla mula dell'altrui, però ella come facea il debito suo a ben mangiare; poco il facea al portare delle some, e solo in questo compiacea al suo padrone, che volentieri portava le sacche piene, e sopra per buona misura messere lo Balestraccio, ma solo vicino a casa, o fin a mezza strada, che dal mezzo in là volea esser portata lei con le sacche. Or vedete che soma bisognava che portasse il tapinello; e insomma di sí poco utile fu la mula di Balestraccio; quindi passò in proverbio la sua mula contro quelle persone che molto piú mangiano, che non ne sono utili».

martedì 23 settembre 2014

L'ipotipòsi

Probabilmente alcuni blogghisti non hanno mai sentito parlare di una figura retorica chiamata "ipotipòsi" perché non tutti i testi di linguistica la menzionano. Vediamola assieme. L'ipotipòsi, dunque, consiste nel descrivere, nel rappresentare cose e persone "al vivo" in modo che l'ascoltatore o il lettore possa "vedere" e "toccare" l'immagine. Tra gli esempi classici di ipotipòsi bellissima, a nostro avviso, quella di Giacomo Leopardi nel descrivere la battaglia di Maratona ("Canzone all'Italia"): Come lion di tori entro una mandra / or salta a quello in tergo e si gli scava / con le zanne la schiena, / or questo fianco addenta or quella coscia...

domenica 21 settembre 2014

Essere come la gramigna

Questo modo di dire - di uso prettamente popolare - si tira in ballo quando si vuole mettere bene in evidenza il proliferare veloce  e su "larga scala" di un fenomeno negativo. Fa il paio, insomma, con l'altro piú conosciuto, "essere una mela marcia". La gramigna, pianta delle graminacee, comunissima, fa parte di un gruppo di "erbe infestanti", è molto tenace e nuoce ai campi coltivati in quanto si propaga largamente e mette radici lunghe. È molto facile, quindi, trovarla dappertutto, anche nei luoghi in cui si credeva di averla estirpata. Questa "mal'erba" ha origininato altri modi di dire - adoperati sempre in senso figurato - quali "s'attacca come la gramigna", detto di persona della quale non riusciamo a liberarci; "sentir nascere la gramigna", avere, cioè, un udito finissimo ma soprattutto avere una sensibilità acutissima tanto da avvertire ogni minima cosa e, di conseguenza, essere sempre diffidenti e sospettosi come se si "vedessero" i possibili aspetti negativi in tutto ciò che accade perché - metaforicamente - si sente odor di... gramigna.

venerdì 19 settembre 2014

Senza: preposizione e congiunzione

Riteniamo necessario spendere due parole su "senza" perché la quasi totalità dei sacri testi grammaticali classificano (o, se preferite, classifica) il termine in questione solo tra le preposizioni improprie. No, può essere anche congiunzione e introdurre una proposizione subordinata esclusiva con valore modale. Si unisce direttamente al verbo all'infinito quando il soggetto delle due proposizioni (principale e subordinata) è il medesimo: è andato via di corsa senza proferire parola; si fa seguire dalla congiunzione "che" e il verbo al congiuntivo quando i soggetti delle due proposizioni non coincidono, sono, cioè, diversi: è andato via di corsa senza che (io) potessi fermarlo.

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Anche un solo capello fa la sua ombra 

Questo modo di dire - di origine proverbiale e, forse, poco conosciuto - si adopera allorché si vuole mettere in evidenza il fatto che anche le persone apparentemente insignificanti hanno, al contrario, il loro peso e il loro valore. Si adopera, in particolare, per invitare o ammonire qualcuno a guardarsi dalle persone generalmente tranquille e dall'ira delle persone deboli. L'espressione è tratta da una sentenza di Publio Siro con la quale invitava i cosí detti potenti a non sottovalutare nessuno, neanche i nemici piú umili.

giovedì 18 settembre 2014

"Che bello!"? Sì, che bello!

Un coraggioso anonimo lettore ci ha contestato la correttezza di quanto scrivemmo il 22 marzo dello scorso anno a proposito dell'espressione "che bello!". Riproponiamo il nostro intervento con i commenti (la "contestazione") del lettore, seguiti dalla nostra risposta. 
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Dissentiamo totalmente su quanto sostiene il sito http://grammatica-italiana.dossier.net/errori-grammaticali.htm : «che bello! modo errato dialettale dell'Alta Italia. Si deve dire: Che cosa bella! o Come è bello! Il che esclamativo è un aggettivo e perciò non si può usare senza un nome». Dissentiamo perché in questo caso “bello” assume la funzione di aggettivo sostantivato (un sostantivo a tutti gli effetti, quindi) con valore neutro e sta per “cosa degna di attenzione”. Diremo correttamente, per tanto, “che bello!, domani si fa vacanza”. Lo stesso discorso per quanto riguarda le espressioni “che buono!”, “che bravo!”, “che strano!” e simili. 
Pubblicato da Fausto Raso a venerdì, marzo 22, 2013
4 commenti:

Anonimo ha detto... «Diremo correttamente, per tanto, "che bello!, domani si fa vacanza". Lo stesso discorso per quanto riguarda le espressioni "che buono!", "che bravo!", "che strano!" e simili». Nei casi da lei citati, le espressioni "Che bello!", "Che buono!", ecc. assumono «la funzione di aggettivo sostantivato»? La sua asserzione è una giocosa provocazione diretta ai lettori, il frutto di un colpo di sonno, o una lacuna grammaticale mai colmata? Alle Elementari si insegna che l'aggettivo sostantivato è presente quando si scrive "Il bello", "Il buono", e così via. Inoltre, equiparare un aggettivo sostantivato ad un «sostantivo a tutti gli effetti» significa non sapere che, in alcuni casi, l'aggettivo sostantivato richiede la maiuscola, proprio per sottolinearne la peculiarità (ad esempio "il Milanese", termine usato per indicare il territorio circostante alla città di Milano). Elementare, Raso, elementare.
17 settembre 2014 02:39

Fausto Raso ha detto... Caro anonimo, mi accusa di non avere colmato una lacuna grammaticale nascondendosi dietro l'anonimato. Che coraggio! "Che bello!". Confermo quanto ho scritto. "Bello", nel caso in esame, è un aggettivo sostantivato che sta per "bellezza": che bello! (che bellezza!) domani si fa vacanza. Credo sia lei a dover colmare qualche lacuna di "grammatica elementare". Mi stia bene
 FR
17 settembre 2014 11:38 

Anonimo ha detto... Che sagace! Il confronto con un esperto della sua levatura incute timore e spinge il non sagace (aggettivo sostantivato), all'anonimato. Il coraggio è tutto suo, soprattutto nel confermare quanto scritto nell'articolo e nel pubblicare una risposta dove commuta l'aggettivo "bello", su cui verte il suo intervento, in "bellezza" (sostantivo uscito a senso dal cassetto del prêt-à-porter). Terrò per me le mie lacune di "grammatica elementare", ammirando con un sorriso le sue competenze piuttosto... casual. Stia bene anche lei. P.S. Non s'offenda se evito il "mi" (stia bene) tratto dall'armadio della nonna. Puzza un po' di stantio e naftalina. Mi raccomando, continui con i periodici risciacqui della lingua italiana. Prima o poi dovranno pur fare effetto.
17 settembre 2014 14:09

Fausto Raso ha detto... Carissimo anonimo coraggioso, mi taccio. È meglio per lei, ma soprattutto per me... Mi stia bene (di nuovo). 
FR
 17 settembre 2014 18:35

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Ferro di cavallo: porta fortuna

Chi di voi, gentili amici, non conosce un parente o un vicino di casa che porti sempre con sé un ferro di cavallo convinto che -  cosí facendo -  la fortuna gli arriderà sempre? Vogliamo vedere come è nata questa credenza? Sembra che a cavallo dei secoli XVII e XVIII i nobili di Francia e le persone molto facoltose facessero ferrare i cavalli non con il comunissimo metallo, bensí con l'oro. Molto spesso, però, quando i cavalli cosí ferrati percorrevano i sentieri di campagna perdevano questo prezioso metallo dai loro zoccoli e chi lo trovava - per quei tempi - trovava una... fortuna. Di qui, per l'appunto, la "convinzione" che il ferro di cavallo porti fortuna, in tutti i sensi.

  

martedì 16 settembre 2014

Di buzzo buono

Dopo estenuanti trattative e insistenze il ragionier Felici vedeva, finalmente, che i suoi desiderata erano stati rispettati: tutti gli impiegati alle sue dipendenze si erano messi di buzzo buono, vale a dire con impegno, nello svolgimento dei compiti loro affidati e il lavoro arretrato fu "smaltito" in un batter d'occhio tanto che lo stesso Felici ricevette un encomio solenne da parte dell'amministratore delegato della Società. Chissà quanti cortesi lettori delle nostre noterelle hanno adoperato e adoperano questo modo di dire, "di buzzo buono", appunto, 'pappagallescamente', senza conoscerne il significato recondito. Quest'espressione, dunque, appartiene agli idiotismi di origine dialettale il cui significato non è molto chiaro. Vediamo, allora, di fare (modestamente)... un po' di chiarezza. Per buzzo si intende lo stomaco, la pancia, tanto che nella città eterna il "mangione" viene chiamato 'buzzone', vale a dire persona che pensa sempre a riempirsi la... pancia. Per la spiegazione del modo di dire, per tanto, potremmo azzardare l'ipotesi di un uso figurato del buzzo: come una persona di "bocca buona" si siede a tavola e mangia tutto con calma e con "impegno", cosí un'altra persona si mette di "buzzo buono", cioè con impegno, con buona volontà, nello svolgimento di una determinata attività.

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Vistoso. Questo aggettivo significa "appariscente", "che dà nell'occhio"; è improprio, a nostro modesto avviso, adoperarlo nell'accezione di "notevole", "cospicuo", "grande" e simili. Non, quindi, "una vistosa somma", ma, correttamente, una cospicua, notevole somma.

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Interessante il quesito posto a "La posta del Professore", della Zanichelli in rete.

lunedì 15 settembre 2014

Mettere in palio

Alcuni amici blogghisti ci hanno scritto pregandoci di spiegare l'origine della locuzione "mettere in palio", oggi tanto "di moda", visto che tutte le emittenti televisive per aumentare, anzi per "catturare" un maggior numero di spettatori ricorrono a giochi telefonici che prevedono ricchi premi "in palio". Li accontentiamo subito anche se, ci sembra, questa espressione è stata trattata tempo fa.
Questo modo di dire, che propriamente significa "promettere, offrire come premio di una gara", ci è stata tramandata dal nostro Medioevo. Il palio ("pallium", tardo latino, 'drappo') era un drappo ricamato che in epoca medievale, appunto, si dava in premio al vincitore di una gara. Con il trascorrere del tempo il termine palio ha assunto, per estensione, il nome della gara stessa e del premio.

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Esoterico ed essoterico

Si presti attenzione a questi due aggettivi: non sono l'uno sinonimo dell'altro. Il primo aggettivo significa "segreto", "occulto" (dottrina esoterica); il secondo, con due "s", significa "pubblico", "destinato a tutti". 

sabato 13 settembre 2014

La prosopopea

Forse pochi sanno che con il termine "prosopopea" non si indica solo il parlare (e l'atteggiamento) pomposo, presuntuoso e irritante di talune persone; il vocabolo suddetto è anche una figura retorica consistente nel personificare cose o fatti inanimati. Con questa "figura" i poeti fanno parlare i fiumi, i monti, gli alberi, la giovinezza, la vecchiaia ecc. Ma anche e forse soprattutto i morti e le persone assenti. Un bellissimo esempio di prosopopea (o personificazione) si trova nel Carducci, che fa bisbigliare ai cipressi della sua amata Maremma: "Ben torni ormai".

venerdì 12 settembre 2014

Tinnire


Ci piace segnalare un verbo "sconosciuto" perché di uso prettamente letterario che significa "squillare", "risonare" e simili, di origine onomatopeica. È intransitivo e della III coniugazione, nei tempi composti può prendere tanto l'ausiliare avere quanto l'ausiliare essere. In alcuni tempi si coniuga con la forma incoativa, vale a dire con l'inserimento dell'infisso "-isc-" tra il tema e la desinenza (tinnisco). 

giovedì 11 settembre 2014

La fauna e la flora

Tutti conosciamo il significato di "fauna" e di "flora", se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana, il Devoto-Oli, per esempio e leggere: "Fauna, il complesso delle specie animali proprie di un determinato ambiente o territorio"; "Flora, il complesso delle piante spontanee o largamente coltivate in un determinato territorio". Ma donde derivano questi nomi? Vediamolo assieme. La fauna è pari pari il latino Fauna, nome della figlia di "Faunus" (Fauno), genio benefico delle campagne, dei monti e del bestiame. Questo genio era venerato soprattutto dai pastori, che lo ritenevano dio del gregge in quanto allontanava i lupi. Era raffigurato con orecchie appuntite, piedi di capra e corna. Anche flora è il latino Flora, nome di una dea che i nostri antenati Romani veneravano come regina della primavera e di ogni fiore (latino florem), quindi di tutte le piante.

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"Porta a Porta" di ieri: "Lorrore dei tagliagole".
A nostro modesto avviso il titolo della trasmissione di Bruno Vespa sarebbe stato "piú corretto" se avesse recitato "L'orrore dei tagliagola". Perché? Perché essendo un termine composto di una voce verbale (taglia) e un sostantivo femminile singolare (gola) nella forma plurale resta invariato.

mercoledì 10 settembre 2014

Essere una (o fare la) macchietta

C'è qualche amico lettore che possa dire - "in piena coscienza" - di non conoscere (o di non aver mai adoperato) il modo di dire suddetto, riferito a una persona spiritosa che - solo a guardarla - suscita il buonumore? L'espressione - i lettori amanti della pittura lo sanno bene - è tratta dal "gergo pittorico". La macchietta ('piccola macchia') in pittura è un rapidissimo schizzo a olio e, per estensione, una vignetta. Il termine, entrato in seguito nel linguaggio teatrale, quello leggero, si adopera per indicare un personaggio o una scenetta caricaturale ('caricatura' pittorica). Lo stesso modo di dire si adopera anche (forse non tutti lo sanno) nei confronti di una persona che irrita con il suo comportamento estroso e incostante: ma come, fino a questa mattina avevi le idee ben chiare e ora, invece, vuoi fare tutto il contrario?! Sai, amico, sei proprio una bella macchietta!

martedì 9 settembre 2014

Prendere il turco per i baffi

Chissà quanti gentili lettori - nel corso della loro vita - hanno preso (e prendono tuttora) il turco per i baffi e non se ne sono mai accorti. No, il sole settembrino non ci ha dato alla testa, state tranquilli... Qualcuno dirà di non aver mai visto un... turco in vita sua, quindi non può averlo preso per i baffi. Costui mentisce, ma in buona fede. Colui che ha preso (o prende) il turco per i baffi ha avuto un colpo di fortuna; si è avventurato in un'impresa difficilissima ottenendo un successo inaspettato. Allora, cortesi amici, nessuno di voi è mai stato baciato dalla dea bendata? Stentiamo a crederlo. L'origine del modo di dire risale ai tempi in cui le coste del Mediterraneo erano in balía dei Saraceni, considerati sanguinari e invincibili. Se qualcuno riusciva a immobilizzarne uno, afferrandolo magari per i... baffi, di cui andavano orgogliosi,  era riuscito a compiere un'impresa difficilissima, quasi impossibile, che si poteva "giustificare" solo con un incredibile colpo di fortuna.

sabato 6 settembre 2014

"A carte quarantotto"

Cortesissimo dott.Raso,
non ho parole adeguate per esternarle i miei sentiti ringraziamenti circa l'epanortosi. Dal suo blog si impara sempre, e dovremmo esserle tutti riconoscenti per le sue preziosissime "noterelle" a... "costo zero". Mi ritiene uno sfacciato se mi permetto un'altra domanda? Perché si dice (e cosa significa esattamente) "andare a carte quarantotto"?
Grazie ancora e un cordiale saluto.
Costantino C.
 Carbonia
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Gentile Costantino, sono io che ringrazio lei per le sue belle parole rivoltemi. Quanto alla sua richiesta troverà la risposta cliccando qui.

venerdì 5 settembre 2014

L'epanortòsi

Gentilissimo dott. Raso,
le ho scritto altre volte per alcuni quesiti di natura linguistica e ho sempre ottenuto risposte puntuali e esaustive. Approfitto ancora una volta della sua "proverbiale" squisitezza, quindi, per un'altra richiesta. Esiste una figura retorica o grammaticale atta a indicare ciò che una persona, mentre parla, ritratta o corregge quanto ha già esposto? Cerco di spiegarmi meglio con un esempio: stavo uscendo, o meglio, ero già uscito quando sono dovuto rientrare in casa per rispondere al telefono. Nell'esempio ho corretto "stavo uscendo" in "ero già uscito".
La ringrazio in anticipo della sua cortese risposta e le porgo i miei più cordiali saluti.
Costantino C.
Carbonia
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Cortese amico, sí, la risposta è affermativa. Esiste una figura retorica atta allo scopo anche se, mi sembra, non tutti i trattati di grammatica riportano: epanortòsi. Per maggiori approfondimenti veda qui.

giovedì 4 settembre 2014

Fare come i topi degli speziali

Il modo di dire completo, oggi poco usato, per la verità, è "fare come i topi degli speziali, che leccano i barattoli". Sta a significare di essere circondati di belle cose che non si possono godere, come i ratti che vivono in un magazzino pieno di cibi appetitosi ma non hanno la possibilità di "assaggiarli".

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Basta con queste "caccabàldole"!

Ecco un altro vocabolo che - se non cadiamo in errore - non è piú a lemma nei vocabolari. Che cosa sono queste caccabaldole? Sono delle moine, delle parole lusinghiere per entrare nelle grazie di qualcuno.

mercoledì 3 settembre 2014

La schinchimurra

Ci piacerebbe che i vocabolaristi prendessero in considerazione l'idea di rimettere (o mettere?) a lemma il termine "schinchimurra", cioè una parola finta adoperata a bella posta per scherzo e per richiamare l'attenzione dell'interlocutore.

martedì 2 settembre 2014

Apposta

Due parole apposta su.... "apposta". Quasi tutti, quando fanno l'analisi grammaticale del vocabolo in questione lo classificano come avverbio. No, non è sempre avverbio, può essere anche aggettivo invariato. Quando ha valore avverbiale sta per "di proposito", "proprio per quello scopo", "deliberatamente" (credo si comporti cosí apposta per infastidirmi); in funzione aggettivale vale "dedicato", "destinato", "fatto appositamente", "adeguto allo scopo", "adatto" (per far funzionare quel macchinario ci vogliono persone apposta). Si può scrivere anche in due parole: a posta.

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Essere come l'olio per il lume....


...essere indispensabile, di grande aiuto. La locuzione fa riferimento ai lumi di una volta alimentati a olio, senza quest'ultimo elemento la luce (la fiamma) langue, basta aggiungere un po' d'olio, appunto, e la fiamma (la luce) si ravviva.

lunedì 1 settembre 2014

Aggrottare e... aggrondare

Forse pochi sanno che i verbi "aggrottare" e "aggrondare", pur avendo un' "origine etimologica" diversa, sono l'uno sinonimo dell'altro avendo il medesimo significato: corrugare le sopracciglia e la fronte per stupore, perplessità, sdegno, tristezza. Aggrondare si usa anche nella forma intransitiva pronominale con il significato di "rattristarsi", "incupirsi", "divenire serio in volto".

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Trovare il diavolo nel catino


Ecco un'altra locuzione forse poco conosciuta. Chi trova il diavolo nel catino? Colui che arrivando tardi (a un appuntamento, ecc.) non usufruisce di un beneficio. Nei tempi andati il fondo del catino (zuppiere, insalatiere e simili) era decorato con la figura del diavolo e serviva come piatto di portata. Chi arrivava tardi a tavola e vedeva il diavolo trovava il catino vuoto, quindi non aveva nulla da mangiare. Di qui, l'uso figurato dell'espressione.