sabato 31 maggio 2014

Significante e significato

Gentilissimo dott Raso,
la ringrazio sentitamente per la celere risposta sulle parole omofone. È stato di una chiarezza unica. Avrei un altro quesito da sottoporle, approfittando della sua non comune disponibilità. Ho sentito dire che una parola ha un significante e un significato. Come si "riconoscono? E che cosa sono esattamente?
 Grazie in anticipo e molte cordialità.
 Giuseppe T.
    Udine
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Cortese amico, l'argomento è lungo e un po' complesso. La rimando a questo collegamento.
A completamento di quanto leggerà: possiamo dire, in parole semplici, che il "significante" è dato dalla grafia, il "significato" è il concetto che la grafia esprime.

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Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:

Stefania  scrive:
Nella frase: “cerca di spiegare le tue motivazioni con un po’ di diplomazia”, “con un po’ di diplomazia” è un compl.di modo (può essere sostituito dall’avv. di modo diplomaticamente) oppure risponde alla domanda per mezzo di che cosa? e dunque è compl.di mezzo? Inoltre, “di diplomazia” è compl.partitivo, credo.
Grazie!
       
 Linguista scrive
 “Con un po’” è complemento di mezzo; “di diplomazia” è complemento partitivo.
Fabio Ruggiano

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Dr Ruggiano, siamo allibiti.  «Con un po’ » non significa nulla, quindi non può essere un complemento. A nostro avviso ha ragione (quasi) la lettrice. “Con un po’ di diplomazia” si può considerare sia un complemento di modo sia un complemento di mezzo.



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«Ultim'ora»
La risposta del dr Ruggiano - autore, con Fabio Rossi, del manuale "Scrivere in italiano", ed. Carocci - è stata cassata dal sito del giornale e sostituita con quella del coordinatore dei linguisti, Massimo Arcangeli.

Come in tantissimi altri casi, anche in quello che propone lei il complemento (“con un po’ di diplomazia”) è a metà strada fra mezzo e modo. La possibilità di sostituire “con diplomazia” con l’avverbio di modo “diplomaticamente”, tuttavia, fa sì che si possa senz’altro attribuire “con diplomazia” alla categoria degli avverbi di modo. Non ha d’altra parte torto a ritenere “di diplomazia”, nell’esempio, un complemento partitivo, il cui antecedente è l’espressione di quantità indefinita “con un po’”. Come cavarsela di fronte a un piccolo conflitto fra complementi come questo? Semplice: ubi maior minor cessat. Il complemento di modo, per così dire, ingloba il complemento partitivo: “con un po’ di diplomazia”, perciò, è un complemento di modo reso appena più dinamico dell’alternativa “neutra” “con diplomazia” dalla presenza di una forma attenuativa (“un po’ di”). Dal complemento partitivo “di diplomazia”, nell’analisi, si può insomma prescindere.
Massimo Arcangeli



venerdì 30 maggio 2014

Omofone e omografe

Cortese dott.Raso,
le sarei veramente grato se potesse spiegarmi la differenza che intercorre tra le parole omografe e quelle omofone. Complimenti per il suo prezioso "servizio". La seguo da moltissimo tempo.
Cordialmente
Giuseppe T.
Udine
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Gentile Giuseppe, le 'copincollo' un mio modestissimo articolo sull'argomento scritto qualche anno fa.


La nostra lingua è ricca di parole "omofone" (stesso "suono") e "omografe" (stessa grafia). Vediamo, succintamente, la differenza. Le parole omofone sono dette anche "omonime" perché oltre ad avere il medesimo "suono" hanno anche lo stesso nome (la "bugia", per esempio: candeliere e menzogna); quelle omografe, invece, hanno la medesima grafia ma il "suono", cioè la pronuncia, non sempre uguale. Legge, "norma" e lègge, dal verbo leggere, per esempio, sono omografe ma non omofone. Le parole omofone, quindi, sono sempre omografe; queste ultime invece, non necessariamente sono anche omofone. E quanto alle omofone (o omonime) c'è da dire che nella stragrande maggioranza dei casi provengono da due termini diversi che hanno finito con il coincidere per l'evoluzione storica del linguaggio. Vediamo, in proposito, qualche esempio: la lira, moneta, viene dal latino "libra(m), mentre la lira, strumento musicale, da "lyra(m); il miglio, la pianta, ha origine da "miliu(m), il miglio, la misura da "milia". Ancora: la fiera, belva, da "fera(m), fiera, mercato, da "feria(m)"; botte, recipiente, da "butta(m)" ('piccolo vaso'), botte, percosse, dal francese antico "boter" (percuotere). Sarà bene, per tanto, accentare le parole omonime che possono generare equivoci: balia e balía; regia e regía; ambito e ambíto; subito e subíto; ancora e àncora; decade e decàde. L'accento che si adopera in questi casi si chiama "fonico" perché fa cambiare, appunto, il "suono" alle parole che hanno il medesimo nome. Un accento, diceva un grande linguista, "se al posto giusto non ha mai fatto male a nessuno".  Vediamo, ora, un'altra parola omografa ma non omofona perché  a seconda della pronuncia cambia di significato: razza. Pronunciata con zeta dolce indica un pesce marino la cui lunghezza varia da trenta centimetri a due metri, ha la forma di un rombo con gli occhi sul dorso e la bocca sul ventre.  Se si pronuncia, invece, con la zeta aspra indica un sostantivo il cui significato è noto a tutti: gruppo di individui di una  medesima specie, animale o vegetale; quindi  gruppo, popolazione, popolo.



giovedì 29 maggio 2014

Fare orecchi da mercante e vendere a prezzi stracciati



Prima di occuparci delle due locuzioni – tra l’altro conosciutissime – e considerato il fatto che la lingua non ha “compartimenti stagni” ci preme spendere due parole, sotto il profilo grammaticale, sull’… orecchia, che con il maschile orecchio (e i rispettivi plurali) si equivalgono; il maschile, però, è piú comune, mentre la forma femminile si adopera in particolari espressioni figurate come, per esempio, “avere le orecchie d’asino” o nel significato di “piegatura” degli angoli della pagina di un libro o di un quaderno. Orecchio e orecchi, quindi, nel significato proprio, cioè come organi dell’udito; orecchia e orecchie, invece, nei significati figurati. E veniamo ai due modi di dire di cui il primo, per la “regola” suddetta – a nostro modesto avviso – è “fare orecchi…”, non “orecchie”, come si sente dire comunemente. L’espressione, dunque, trae origine dall’abitudine dei mercanti di far finta di non udire le lamentele dei clienti o di sentire solo ciò che fa loro comodo, “incolpando” la confusione della piazza del mercato. Riportiamo, in proposito, una curiosa storiella narrata da Dino Provenzal: «Un turco, qualche secolo fa, andò a comperare una stoffa a Costantinopoli e domandò il prezzo. “Ma quanta ne volete?”, domandò il mercante. “Oh, tanta quanta è la distanza dal mio orecchio sinistro al mio orecchio destro”. “Allora basterà una piastra” (una moneta turca, ndr). “Benissimo”. Il turco si tolse il turbante che gli avvolgeva il capo e disse: “Il mio orecchio sinistro, come vedete è qui: il destro è inchiodato sul banco di un negozio di Bagdad”. Non sappiamo se rimase buggerato il turco o il negoziante che probabilmente non era a conoscenza della barbara usanza: gli avventori che venivano sorpresi a rubare erano puniti con il taglio di un orecchio che veniva inchiodato sul bancone… a “futura memoria”». Quanto alla seconda locuzione, “a prezzi stracciati”, cioè bassissimi, deriva, con molta probabilità, dal fatto che i “piazzisti”, vale a dire i mercanti ambulanti, sono soliti stracciare i prezzi davanti agli avventori, al fine di convincerli che i nuovi prezzi proposti sono effettivamente piú bassi di quelli appena “stracciati”.

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Navigando in Internet abbiamo scoperto che buona parte delle persone “di cultura” ritengono che si dica “malevole” e non, correttamente, malevolo. Credono, insomma, che l’aggettivo in oggetto appartenga alla seconda classe, come “facile”, per esempio e abbia, quindi, un’unica desinenza, tanto per il maschile quanto per il femminile ('-e', maschile e femminile singolare; 'i', maschile e femminile plurale). No, la forma corretta è malevolo perché viene dall’aggettivo latino ‘malévolus’, della seconda declinazione, e la desinenza ‘-us’ latina si tramuta normalmente nella terminazione ‘-o’ del maschile italiano. È, quindi, un aggettivo della prima classe, come “buono”, le cui desinenze sono ‘-o’ e ‘-i’ per il maschile singolare e plurale, ‘-a’ e ‘-e’ per il femminile singolare e plurale. Diremo, quindi, “uno scritto malevolo”, con il plurale “malevoli” e “una critica malevola” con il plurale “malevole”. Identico discorso per “benevolo”.

mercoledì 28 maggio 2014

Mangiare un pollo alla Marengo

Ciò che avete appena letto non è un modo di dire, è interessante, però, conoscerne la storia. Chissà quanti amici lettori, amanti della buona cucina, hanno spesso assaporato un pollo cosí chiamato, anzi... cucinato, senza sapere che ciò che stavano gustando era un piatto partorito dalla Storia. Ma andiamo con ordine. Tutti sappiamo che cos'è il marengo. Se non altro basta aprire un vocabolario e leggere: antica moneta d'oro da venti franchi. Questa moneta fu fatta coniare da Napoleone in seguito alla vittoria riportata sugli Austriaci il 14 giugno 1800 nei pressi di Marengo*, vicino ad Alessandria. E il pollo che c'entra? È presto detto. Si narra che in quella storica giornata i cuochi militari dell'armata napoleonica, per festeggiare la vittoria, prepararono alla bell'e meglio un pollo cucinato con vino bianco, aglio, uova, funghi e pomodori. Il piatto piacque moltissimo all'imperatore, che volle fosse chiamato, appunto, "pollo alla Marengo" affinchè i posteri, mangiandolo, ricordassero quello storico avvenimento.

* Battaglia di Marengo.
 
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Alcune osservazioni sull’uso corretto di “dietro” che ha molteplici funzioni e che non tutti conoscono. Cominciamo con quella veramente sconosciuta ai piú: la funzione aggettivale. Naturalmente si tratta di una forma impropria di aggettivo e in quanto tale il vocabolo in oggetto resta invariato tanto riferito a un sostantivo femminile quanto a un sostantivo plurale: il sedile ‘dietro’; la casa ‘dietro’; i finestrini ‘dietro’.

Come preposizione impropria vale “nella parte posteriore”; “al di là di un’altra cosa” e si unisce direttamente al nome che segue: dietro la casa; dietro la piazza. Alcuni preferiscono accompagnarlo con la preposizione (semplice o articolata) “a”: dietro ‘alla’ facciata; dietro ‘al’ mobile. Riteniamo, questo, un uso non molto corretto e, quindi, da evitare in buona lingua italiana. Dietro è di per sé una preposizione, sebbene impropria, per quale motivo (grammaticale) farlo seguire da un’altra preposizione? È obbligatoria, invece, la preposizione “di” quando dietro è seguito da un pronome personale: dietro ‘di’ voi; dietro ‘di’ loro. Quest’ultima preposizione (di) si tramuta in ‘a’, però, quando è espresso un concetto di moto a luogo (reale ofigurato): andava sempre dietro ‘a’ lei; correva sempre dietro ‘alla’ moda. In funzione avverbiale dietro significa “nella parte posteriore” e spesso è accompagnato con altri avverbi di luogo o preceduto dalla preposizione ‘di’: sedeva dietro o ‘di’ dietro, vale a dire “nella parte posteriore”. E, sempre come avverbio, può assumere un valore temporale con il significato di “dopo”: ha commesso un errore ‘dietro’ l’altro.Concludiamo queste “due parole, due” riportando quanto dice in proposito l’illustre linguista, ormai scomparso, Aldo Gabrielli, un “padre” della lingua:

“Con ‘dietro’ si costruiscono numerose locuzioni scorrette che è necessario evitare; non si dica ‘dietro sua domanda’ ma ‘a sua domanda’; ‘dietro consegna’ ma ‘alla consegna’; ‘dietro versamento’ ma ‘contro versamento’, ‘all’atto del versamento’; ‘dietro il vostro intervento’ ma ‘per il vostro intervento’; ‘dietro la vostra assicurazione’ ma ‘dopo la vostra assicurazione’ (…)”.

E tante altre ancora che omettiamo per non tediarvi oltre misura.

lunedì 26 maggio 2014

Affatare



Tra i vocaboli che ci piacerebbe fossero rimessi a lemma nei vocabolari segnaliamo il verbo affatare, vale a dire rendere invisibile o invulnerabile per magia.

domenica 25 maggio 2014

Cachinno

La parola che proponiamo oggi è: cachinno. Sostantivo maschile. Sta per risata esagerata, sguaiata e beffarda.

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Cestosi faccia attenzione a questo sostantivo maschile ché cambia di significato a seconda della pronuncia aperta o chiusa della e. Con la e chiusa (césto) il termine indica una sorta di paniere; con la e aperta (cèsto) il vocabolo definisce un’armatura di metallo o di cuoio che indossavano gli antichi pugilatori.