venerdì 28 febbraio 2014

La retta (intesa come "somma")

Gentilissimo Dott. Raso,
la seguo da moltissimo tempo. Lascio i preamboli e vengo al dunque. Perché la somma che si versa mensilmente per un pensionato, per un convitto, per una scuola privata ecc. si chiama "retta"?
Certo di una sua cortese risposta, la ringrazio in anticipo e le porgo i miei più cordiali saluti.
Domenico F.
Varese
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Cortese Domenico, le faccio "rispondere" da Ottorino Pianigiani, dal quale apprenderà anche l'origine dell'espressione "dar retta", vale a dire "ascoltare i consigli di qualcuno", "prestare attenzione", "porgere l'orecchio", "badare" e simili.

giovedì 27 febbraio 2014

Il Mandarino e il... mandarino



Alcune divagazioni sulla nostra bella lingua cominciando proprio dal termine divagazione che, come tutti sappiamo, significa divertimento.
Questo sostantivo, dunque, è un deverbale, vale a dire un nome generato da un verbo, nella fattispecie il verbo divagare, appunto. Divagare, a sua volta, viene dal tardo latino divagari, composto del prefisso dis- (allontanamento, separazione) e del verbo vagari (vagare) e alla lettera vale andar girando qua e là, senza una meta.
La divagazione, per tanto, è un allontanamento dalla via intrapresa, una deviazione che ci spinge a gironzolare di qua e di là, per questo motivo ha acquisito il significato, non comune, di svago, di divertimento.
Divertiamoci, quindi, con alcune… divagazioni sulla lingua cominciando con un termine a tutti noto: mandarino. Questo sostantivo (ma anche aggettivo, forse pochi lo sanno) ha due distinti significati, ma la medesima origine etimologica (si perdoni il brutto gioco di parole).
Il primo significato è il più conosciuto: frutto simile a una piccola arancia, dolcissimo e fragrante, la cui buccia è giallognola e leggera. Il secondo significato – che ha dato origine al primo – è quello principe: titolo attribuito agli alti dignitari della corte imperiale cinese.
Occorre dire, però – e la cosa potrebbe sembrare inverosimile – che la Cina non conosce questo termine; tutti gli studiosi di lingua concordano sulla provenienza portoghese del vocabolo: mandarim.
Ci sono, invece, due scuole di pensiero circa l’origine di quest’ultimo vocabolo. Alcuni fanno risalire il portoghese mandarim al sanscrito mantrin (consigliere) che si riallaccerebbe alla radice man (pensare). I consiglieri non… pensano prima di dare un consiglio? E i dignitari di Corte non sono consiglieri?
Altri autori, invece, propendono per il latino mandare nel senso di comandare, verbo che dà origine al contratto di mandato, previsto da tutti i codici civili europei.
Quanto al frutto che ha preso il nome di mandarino – la cosa ci sembra ovvia – è un riferimento scherzoso al colore giallo dei… Mandarini, cioè al colore della pelle dei dignitari (e del popolo) cinesi.
I botanici, però, non si preoccupano del termine mandarino e hanno battezzato l’albero col nome altisonante di Citrus nobilis, sottolineando la dolcezza, il profumo e la ricchezza di vitamine dei suoi frutti.
Divagando divagando siamo arrivati a due sostantivi pressoché simili nella scrittura (non uguali, si presti attenzione) ma con significati diversi: aerometro e areometro. Il primo è composto con le voci greche
 aer, aeros, (aria) e metron, (misura) e indica uno strumento che si usa per determinare i gradi della rarefazione o condensazione di un dato volume d’aria.
Il secondo, che si scrive senza l’inserimento della “e” tra la vocale “a” e la consonante “r”, è, invece, uno strumento galleggiante di metallo o di vetro che serve a misurare la gravità dei liquidi.
Si scrive senza la e perché è formato con le voci elleniche araiòs, (fluido) e mètron, (misura).
Attenzione, quindi, c’è l’aerometro che è una cosa e l’areometro che è un’altra cosa.
E a proposito di parole composte con la voce greca
 aer, aeros
, (aria), tipo aeroporto, aeronautica, aerodinamica, aerazione e simili, invitiamo la televisione di Stato e quella privata a controllare l’esatta grafia dei grafici prima di mandarli in onda. Qualche sera fa abbiamo letto su un grafico di un tg di Stato Arenautica in luogo della forma corretta Aeronautica. E prima ancora Aereonautica.
Sarà bene ricordare che tutti i sostantivi con il prefisso aer-  non prendono mai la e dopo la r: aerostazione, aerodinamica e via dicendo. Solo per l’aggettivo (aereo) si deve conservare la e: veduta aerea.

Dimenticavamo. Mandarino ha anche una terza accezione, che scoprirete cliccando qui.

mercoledì 26 febbraio 2014

In modo di o in modo da?

Due parole, due, sull'uso "corretto" di queste locuzioni prepositive seguite da un verbo di modo infinito: in modo di... e in modo da... Molto spesso, per non dire sempre, vengono adoperate indifferentemente. È bene fare, invece, un distinguo. Quando la locuzione è introdotta dal verbo fare la sola forma corretta è "in modo di": mi raccomando, amici, fate in modo di non allontanarvi troppo. Quando la locuzione introduce direttamente una proposizione subordinata, e nello scritto formale è preceduta, generalmente, da una virgola, la forma da preferire è "in modo da": siate puntuali, amici, in modo da non perdervi lo spettacolo.

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La parola del giorno (di ieri) proposta da "unaparolaalgiorno.it": sdilinquire.

martedì 25 febbraio 2014

L' «odissea (linguistica) della cartamoneta

Le persone che non "masticano" bene la lingua italiana non sanno come regolarsi per formare il plurale di "cartamoneta". I vocabolari non aiutano, anzi...
Su nove vocabolari "spulciati" solo sei concordano (ma a nostro avviso contravvenendo alle norme che regolano la formazione del plurale dei nomi composti). Il solo plurale "corretto" - a nostro modo di vedere - è cartamonete,  perché essendo un sostantivo composto di due nomi dello stesso genere nella forma plurale cambia la desinenza del secondo sostantivo. Vediamo, ora, il "verdetto" dei vocabolari consultati.
GRADIT: cartemoneta; Devoto-Oli: cartemonete; Sabatini Coletti: cartemonete; Treccani: cartemonete; Zingarelli: solo singolare; Gabrielli: solo singolare; Garzanti: cartemonete; De Agostini: cartemonete; Sandron: cartemonete

lunedì 24 febbraio 2014

Un consiglio su... consigliare

Se apriamo un qualsivoglia vocabolario al lemma "consigliare" leggiamo: «Suggerire ad agire in un certo modo; proporre; raccomandare; esortare; verbo transitivo». Quando significa "dare consigli" può reggere tanto il complemento oggetto quanto il complemento di termine. Le due costruzioni sono equivalenti, si possono, cioè, adoperare indifferentemente quando il predetto verbo regge una subordinata oggettiva: lo consigliai di rivolgersi a un buon avvocato; gli consigliai di rivolgersi a un buon avvocato. Ciò che i sacri testi (quelli che abbiamo consultato) non riportano è quando è obbligatorio l'uso dell'uno o dell'altro complemento. Vediamo, dunque. Si deve adoperare obbligatoriamente il complemento di termine quando il verbo in questione regge un altro complemento oggetto: il medico gli consigliò una cura termale. Si userà il complemento oggetto allorché il verbo consigliare è seguito da un avverbio di modo o maniera: il suo amico lo ha sempre consigliato bene.

domenica 23 febbraio 2014

Paragonare: "con" o "a"?

Il verbo paragonare - forse non tutti lo sanno - ha due distinti significati e si costruisce, per tanto, con due diverse preposizioni: 'con' e 'a'.
Cominciamo con il dire che è transitivo e in quanto tale, nei tempi composti, prende l'ausiliare avere. Ma veniamo al "dunque". Quando ha l'accezione di "confrontare" e simili richiede la preposizione 'con': caro amico, non puoi paragonare (mettere a confronto) il tuo lavoro con quello di Osvaldo. Nel significato di "assomigliare" è seguito dalla preposizione 'a': visto il tuo comportamento ti paragono a un animale.

sabato 22 febbraio 2014

Il plurale di madrelingua

Il vocabolario Treccani in rete, al lemma "madrelingua", scrive:
«Madrelìngua (anche madre lìngua) s. f. (pl. madrilìngue, o madri lìngue). – La lingua materna, cioè la lingua appresa o comunque parlata dai genitori o antenati; in genere, per chi risiede all’estero, la lingua del Paese d’origine».
Il plurale madrilingue ci lascia perplessi perché non rispetta la regola della formazione del plurale dei nomi composti. Tale regola stabilisce che il plurale dei nomi composti di due sostantivi dello stesso genere si ottiene mutando la desinenza del secondo elemento: madre (femminile), lingua (femminile) nella forma purale sarà madrelingue. Se i due termini sono scritti in due parole (madre lingua) nel plurale, ovviamente, muteranno le desinenze di entrambi i sostantivi: madre lingua > madri lingue. Un'ultima osservazione. Nel linguaggio corrente madre lingua e lingua madre si equivalgono; per alcuni linguisti, però, la lingua madre è quella da cui ha avuto origine un'altra lingua.
Dimenticavamo. Abbiamo fatto un'altra scoperta, allucinante. Per il GRADIT il termine è addirittura invariabile: «Madrelingua /�madre'lingwa/ (ma�dre�lin�gua) s.f., s.m. e f.inv. $+ [av. 1810; comp. di madre e lingua, cfr. ted. Muttersprache, sec. XVI] 1 s.f. $ la lingua che si � appresa fin dalla prima infanzia 2 s.m. e f.inv. $ chi parla la propria lingua madre: un m. inglese; anche in funz. agg.inv.: insegnante m. 3 s.f. + ling., lingua originaria da cui provengono le altre di una stessa famiglia: il latino � la m. delle lingue romanze».
Anche l'accademico della "Crusca", Luca Serianni, ci sembra, consiglia madrelingue (Grammatica Italiana, Utet, III, 137-150).
Lo stesso il DOP, non specificando, lascia intendere che il plurale è madrelingue, per la grafia univerbata e madri lingue per quella scissa.
Un'altra scoperta, sempre piú allucinante... dalla "Garzanti Linguistica":
. madrelingue o madri lingue
la lingua del paese d’origine, appresa nella prima infanzia
♦ agg. e n.m. e f. invar.
che, chi parla una lingua per apprendimento naturale dall’infanzia: traduttori madrelingua; un madrelingua tedesco
Etimologia: ← comp. di madre e lingua, sul modello del ted. muttersprache.

venerdì 21 febbraio 2014

L''ignivomo"




La parola del giorno proposta dal sito "Unaparolaalgiorno": ignivomo.

giovedì 20 febbraio 2014

Abbrutire e abbruttire



 Riteniamo utile ricordare che i due verbi in questione non sono sinonimi, sebbene molti - erroneamente - li ritengano tali e li adoperino indifferentemente. Entrambi sono verbi denominali, poiché derivano da un sostantivo (nome), ma hanno significati distintiIl primo, abbrutire (con una sola “t”), significa  “rendere (qualcuno) simile a un bruto”, quindi  “avvilire”, “degradare” e simili: la droga lo ha abbrutito. Il secondo, abbruttire (con due “t”), è intuitivo, sta per  “rendere o diventare brutto”, quindi “deturpare” e simili: le troppe preoccupazioni lo hanno abbruttito. Ambedue, nel corso della coniugazione, prendono l’infisso  “-isc-” in alcuni tempi e modi.

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La parola che proponiamo oggi è un aggettivo di provenienza "barbara": falòtico. Si adopera in campo letterario e sta per "fantastico", "stravagante", "balzano".

mercoledì 19 febbraio 2014

Serpentare

Tra le parole che ci piacerebbe fossero "riesumate" e, quindi, rimesse a lemma nei vocabolari segnaliamo il verbo serpentare (la cui etimologia è intuitiva). Può essere transitivo e intransitivo. Ma che cosa significa? È presto detto: molestare, infastidire, importunare.
Adoperato intransitivamente - con l'ausiliare avere - acquisisce il significato di "procedere in modo tortuoso".

martedì 18 febbraio 2014

Qualunque...

 Dopo il pronome “ognuno” due parole, due,  sull’uso corretto di qualunque perché non sempre è adoperato... correttamente. L’argomento, forse, è stato trattato molto tempo fa, ma come dicevano i Latini… Qualunque, dunque, è un aggettivo indefinito di quantità  e significa l’uno o l’altro che sia. È invariabile e non si può adoperare in funzione di pronome (il pronome corrispondente è chiunque). Essendo invariabile non ha plurale;  non è “ortodosso”, quindi, scrivere o dire, per esempio: non mi convincerete mai, qualunque siano le vostre motivazioni. Un verbo di numero plurale (siano) non può riferirsi a un singolare (qualunque). In casi del genere si sostituisca qualunque con quali che (siano le motivazioni). Alcuni vocabolari ammettono, sia pure raramente, l’uso al plurale, in questo caso, però, sempre posposto al sostantivo. Un’ultima annotazione. Qualunque si può adoperare anche in funzione di aggettivo relativo unendo due proposizioni e il verbo che segue va al congiuntivo (popolare l’uso dell’indicativo). In quest’ultimo caso è grave errore farlo seguire dal pronome “che” (essendo insito in qualunque). Non, quindi: voglio sapere qualunque cosa che voi facciate, ma, correttamente, “qualunque cosa facciate”.




domenica 16 febbraio 2014

Purana


La parola che proponiamo oggi, e non attestata nei comuni vocabolari dell'uso, è: purana ("antico"; propriamente, "racconti antichi"). Si veda anche qui.

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A proposito di "Poco fa" (8 febbraio scorso), avevamo inviato questo commento alla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete. Non è stato (finora) ritenuto "degno" di pubblicazione:
Fausto Raso scrive:
Gentile prof. Arcangeli, se “fa”, da verbo, attraverso infiniti passaggi da una categoria grammaticale all’altra è divenuto un avverbio di tempo è avverbio anche “poco”, quindi, in quanto posto davanti a un altro avverbio di tempo (“fa”) equivale a “non molto”. Sono in errore? Grazie e cordialità.

sabato 15 febbraio 2014

Il pronome ognuno

Due parole sull'uso corretto del pronome "ognuno", sperando di non attirarci gli strali
 di qualche (pseudo)linguista, che probabilmente dissentirà su quanto stiamo per scrivere. Abbiamo il conforto, però, se lo abbiamo bene interpretato, del vocabolario Treccani. Ognuno, dunque, è un pronome indefinito che sta per "ogni uomo", "ogni persona" e indica una quantità indeterminata di persone. E qui sta il punto. Questo pronome (con il relativo femminile) viene adoperato impropriamente, per non dire in modo errato, riferito anche alle cose. Ci è capitato di leggere, infatti, «ognuna delle porte di questo locale è collegata al sistema di allarme». Se ognuno significa "ogni uomo", "ogni persona" come può riferirsi a una porta? In casi del genere il pronome da adoperare è "ciascuno", riferibile tanto alle persone quanto alle cose. 

giovedì 13 febbraio 2014

La carcere?

Esimio dott. Raso,
la ringrazio di cuore per la spiegazione di "lustro". Avrei un altro quesito da sottoporle. Si può dire "la carcere", come ho letto in un vecchio libro?
Grazie in anticipo della sua squisita cortesia.
Un saluto.
Luciana M.
Rimini
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Gentilissima Luciana, può trovare la risposta al suo quesito cliccando su questo collegamento.

mercoledì 12 febbraio 2014

Il torzone




La parola che proponiamo oggi è: torzone. Adoperato anche nella variante "tozzone" il vocabolo, sostantivo maschile, indica il frate laico che nei conventi è addetto ai servizi  manuali.

domenica 9 febbraio 2014

Un lustro

Cortese dott. Raso,
potrebbe spiegarmi perché un periodo di cinque anni viene chiamato "lustro"? Che cosa... lustra?
Complimenti per il suo istruttivo blog, che ho scoperto da poco.
Grazie in anticipo e un cordiale saluto.
Luciana M.
Rimini
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Gentile Luciana, le faccio "rispondere" da Ottorino Pianigiani. Clicchi qui.

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La parola che proponiamo oggi è: traversía. Sostantivo femminile, adoperato per lo piú nella forma plurale, che sta a significare "avversità", "contrarietà", "disavventura" e simili.

sabato 8 febbraio 2014

"Poco fa"

Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
                    xyz scrive:
Avrei bisogno dell’analisi grammaticale della seguente frase:”Lo sforzo che ho fatto poco fa è stato grande”. Grazie
                    linguista_1 scrive:
Lo: articolo determinativo maschile singolare;
sforzo: nome comune di cosa maschile singolare;
che: pronome relativo;
ho fatto: voce del verbo fare, indicativo, passato prossimo, prima persona singolare;
poco: pronome indefinito;
fa: avverbio temporale;
è stato: voce del verbo essere, indicativo, passato prossimo, terza persona singolare;
grande: aggettivo qualificativo, maschile, singolare.
Fabio Ruggiano
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Non amiamo fare il bastian contrario, ma ancora una volta dobbiamo dissentire dal dr Ruggiano sulla risposta data a XYZ (5 febbraio). Nell’analisi grammaticale in questione “poco” non è un pronome indefinito ma un avverbio, e “fa” è proprio la terza persona singolare del presente indicativo del verbo fare e si adopera in locuzioni temporali come, per esempio, “un anno fa”, “due giorni fa”, “un secolo fa”. “Poco fa”, quindi, in analisi grammaticale è una locuzione avverbiale, che  in analisi logica diventa complemento di tempo determinato.
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La parola che proponiamo oggi è: adinamía. Sostantivo femminile. Indica un’assenza di movimento e un senso di spossatezza.

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Alcuni amici lettori, amatori della lingua, ci hanno scritto, privatamente, in merito all'analisi grammaticale di "poco fa". A loro avviso "poco", nel caso specifico, non è avverbio ma aggettivo. Ci sentiamo di dire che hanno perfettamente ragione. Poco, nella fattispecie, si riferisce al sostantivo sottinteso "tempo". 'Poco fa' sta, dunque, per "or fa poco (tempo)".

*
Il prof. Massimo Arcangeli, coordinatore dei linguisti di "Repubblica", cosí scrive sul sito del giornale:

“Poco fa” è senz’altro una locuzione avverbiale, ma le due componenti che la formano sono, rispettivamente: 1) il pronome indefinito “poco” (“poco fa” è il risultato della caduta del sostantivo “tempo”, e dunque “poco”, che in “poco tempo fa” è aggettivo, diventa in “poco fa” pronome); 2) l’avverbio di tempo “fa”, originariamente la terza pers. sing. del presente indicativo “fare”, certo, ma non più evidentemente tale per uno degli infiniti passaggi da una categoria grammaticale all’altra ai quali tante lingue, passate e presenti, vicine e lontane, ci hanno abituato.
Massimo Arcangeli
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 La spiegazione che "poco" diviene pronome per la caduta del sostantivo "tempo" non ci convince punto. Come non ci convince il passaggio di "fa" dalla categoria dei verbi a quella degli avverbi. Il Treccani, se non cadiamo in errore, è del nostro stesso avviso.

mercoledì 5 febbraio 2014

L'ademprívio

La parola proposta, oggi, da questo portale è: ademprívio. Sostantivo maschile. Con questo termine si indica il diritto comune di far pascolare bestiame, tagliar legna, estrarre minerali ecc. in un determinato terreno.

martedì 4 febbraio 2014

Complemento di...

Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
                Davide scrive:
Buonasera, nella frase “il cappotto era molle di pioggia”, “di pioggia” che complemento è?
Grazie
                linguista_1 scrive:
Si tratta di un complemento di causa efficiente.
Marcello Ravesi
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Ci spiace, ma dissentiamo totalmente.  A nostro modo di vedere siamo in presenza di un complemento di causa  (completamente diverso da quello di causa efficiente).  Vediamo perché.  Il complemento di causa efficiente si ha con i verbi passivi, è introdotto dalla preposizione “da” (semplice o articolata) e risponde alla domanda sottintesa  “da che cosa?”: la terra è riscaldata dal sole.  Nella frase in oggetto non abbiamo questi “requisiti”. Non esiste, inoltre, un verbo “mollire” che possa  diventare passivo. Ancora. Il complemento di causa efficiente è facilmente riconoscibile anche perché  trasformando la frase da passiva in attiva il soggetto diventa oggetto e il complemento di causa efficiente diventa soggetto:  la terra è riscaldata dal sole>il sole riscalda la terra.   

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Sul sito di Repubblica ha risposto il coordinatore, prof. Massimo Arcangeli:
  1. linguista_1 scrive:
    Caro Raso, il passivo di un supposto “mollire” non c’entra. Basterebbe trasformare l’enunciato in “Il cappotto era reso molle dalla pioggia” e il complemento in questione diventerebbe di causa efficiente. Inutile però, in questi casi, inseguire processi inferenziali. Dunque, caro Raso, le do ragione: siamo di fronte a un complemento di causa.
    Massimo Arcangeli

domenica 2 febbraio 2014

Concordare...

Due parole due, sul verbo “concordare” perché, a nostro modesto avviso, molto spesso non è adoperato correttamente.  Questo verbo, dunque, può essere tanto transitivo quanto intransitivo. Nel primo caso ha i significati di: “stabilire una cosa di comune intesa” e “riuscire a mettere d’accordo persone che sono tra loro in dissidio o in urto”, quindi  “comporre divergenze”, “superare contrasti” e simili:  Dopo lunghe trattative le varie fazioni hanno concordato un periodo di tregua; Giovanni e Mario hanno finalmente concordato un comune piano d’azione. Nel secondo caso assume il significato di coincidere: le tue idee concordano, vale a dire coincidono con le mie. In questo esempio il verbo concordare è costruito in modo corretto con la preposizione con. Quando, però, il predetto verbo sta per “convenire”, “essere d’accordo” si deve costruire con la preposizione (semplice o articolata) su: concordo con te su quanto hai detto, sono, cioè, d’accordo con te sulle tue idee. Si è d’accordo (si concorda), insomma, su una cosa, non con una cosa, come ci capita di leggere sulla stampa  e di sentire nelle varie radiotelevisioni. Quest’ultima preposizione si adopera esclusivamente con le persone: concordo con Luigi su quanto ha esposto. Dimenticavamo.  A proposito di “coincidere”, nei tempi composti prende l’ausiliare “avere”, non essere:  il mio arrivo ha coinciso con la tua partenza.

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La parola che proponiamo oggi è: mistagogía. Sostantivo femminile composto con le voci greche “mystès”, iniziato, e “àgein”, condurre.  Nell’antichità indicava l’iniziazione ai misteri religiosi.

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Volete vedere il “Golfo Mistico”?  Basta andare in un importante teatro. È cosí chiamato il recinto riservato all’orchestra, situato tra il palcoscenico e la sala, in posizione piú bassa rispetto alla platea e non visibile da questa. Espressione che traduce liberamente il tedesco “mystisches Abgrund” (abisso mistico) nome con cui R. Wagner volle chiamare lo spazio destinato agli orchestrali del teatro costruito secondo le sue idee a Bayreuth.

sabato 1 febbraio 2014

Il complemento di paragone


Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
                                                  Riccardo scrive:
Buonasera,
vorrei sapere se nelle frasi seguenti il termine di paragone ‘che’ è accettabile come alternativa all’uso standard di ‘di’. Grazie.
1. Gianni lavora più seriamente che gli altri.
2. Gianni è più serio che Mario.
3. Mi piace ora più che prima.
Riccardo
                                                                                linguista_1 scrive:
Non è accettabile; si tratta di un francesismo (in francese il complemento di paragone è introdotto da que).
Alessandro Aresti
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Ci spiace, ma siamo  in totale disaccordo sulla risposta del dr Aresti data a Riccardo (28 gennaio) sul complemento di paragone. Il "che" è accettabile quanto il "di", non si tratta, quindi, di un francesismo. Il secondo termine di paragone, in italiano, può essere introdotto sia dal  "che" sia dal "di". Quest'ultimo, però, si usa solo davanti a un pronome o un nome non retti da preposizione (Mario è piú giovane 'di' me) o davanti a un avverbio (Luigi camminava piú lentamente 'di' me). Negli altri casi, vale a dire davanti a un pronome o nome retti da preposizione o allorché si paragonano tra loro  due aggettivi, due verbi  o due avverbi è obbligatorio il "che": è piú facile a dire 'che' che a fare; si comporta piú istintivamente 'che' razionalmente.
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Riportiamo la risposta del dr Aresti pubblicata sul sito di Repubblica:
  1. linguista_1 scrive:
    Alessandro Aresti
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Prendiamo atto della risposta del linguista, il quale ha categoricamente scritto che il che « Non è accettabile; si tratta di un francesismo (in francese il complemento di paragone è introdotto da que)». Noi, invece, abbiamo voluto mettere bene in evidenza che si può adoperare tanto il "che" quanto il "di" (ovviamente, come abbiamo scritto, a seconda dei casi). Certo, negli esempi riportati dal lettore Riccardo è meglio usare il "di"; il "che" non sarebbe appropriato (anche se non errato).