giovedì 31 maggio 2012

Affetto e affettività






Molti adoperano, indifferentemente, i termini affettività e affezione. I due vocaboli, invece, hanno una differenza semantica, e ce la spiega, magistralmente, Aldo Gabrielli.

«Affettività, indica la capacità di provare o promuovere affetti; affetto o affezione è ogni sentimento di viva benevolenza, suscitato nel nostro animo da una persona o da una cosa. Attenti, perciò, a distinguerne l’uso».

martedì 29 maggio 2012

«Giocoforza»








Pregiatissimo dott. Raso,
le sarei veramente grato se potesse spiegarmi il significato “nascosto” dell’espressione “essere giocoforza”. I vocabolari consultati non danno chiarimenti in merito, si limitano a dire che l’espressione significa “essere necessario”, “assolutamente inevitabile”. Grazie e complimenti. Il suo blog è veramente prezioso.
Corrado C.
Alghero
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Sí, gentile amico, il significato dell’espressione è ‘essere necessario’, come possiamo apprendere, per esempio, dal vocabolario Gabrielli in rete: «giocoforza, [gio-co-fòr-za] s.m. Solo nella loc. avv. Essere giocoforza, essere necessario, essere inevitabile: fu g. abbandonare la nave al suo destino; ci è stato g. cedere e dargli ragione. Quanto al significato ‘nascosto’ – come dice lei – non è altro che l’ellissi della frase È [un] gioco [che costringe per] forza [a fare qualcosa].


http://www.dizionario.org/d/?pageurl=giocoforza

domenica 27 maggio 2012

Accordo particelle pronominali






Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
• Antonio scrive:
Buonasera a tutti,
1)spesso sento dire: grazie dell’attenzione oppure grazie per l’attenzione.
2) mi hanno trovato in forma oppure mi hanno trovata in forma ?
Qual è la forma più corretta?
grazie.
Antonio

• linguista scrive:
Per quanto riguarda il primo dubbio, le preposizioni di e per sono ugualmente accettabili. La preferenza dell’una o dell’altra dipende dal gusto e dallo stile personali. Riguardo al punto 2), il participio passato di un verbo con l’ausiliare avere si concorda obbligatoriamente con l’oggetto solamente quando l’oggetto precede il verbo sotto forma di pronome atono di terza persona: “lo hanno trovato/la hanno trovata/li hanno trovati/le hanno trovate”. Nel caso di mi e ti si può scegliere se concordarlo o no. Se il pronome è plurale l’accordo di genere è sempre obbligatorio: “ci hanno trovati/ci hanno trovate/vi hanno trovati/vi hanno trovate”.
Fabio Ruggiano
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Ci dispiace ma dobbiamo dissentire recisamente sull’ultima affermazione del dott. Ruggiano: «Se il pronome è plurale l’accordo di genere è sempre obbligatorio: “ci hanno trovati/ci hanno trovate/vi hanno trovati/vi hanno trovate”». Con le particelle ‘mi’, ‘ti’, ‘ci’ e ‘vi’ (a prescindere dal singolare o dal plurale) l’accordo di genere è facoltativo: “Amici carissimi non ‘vi’ ho certo pregati (o pregato) di restare”; “Noi donne ‘ci’ avete lasciate (o lasciato) da sole”.

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Ecco un avverbio che, relegato in soffitta, ci piacerebbe fosse rispolverato: perfuntoriamente. Significa superficialmente, sbrigativamente, alla buona: state tranquilli non faremo nulla di formale, sarà una riunione cosí, perfuntoriamente. È tratto dall’antico aggettivo perfuntorio (‘negligente’).

http://www.etimo.it/?term=perfuntorio&find=Cerca

sabato 26 maggio 2012

Male e malo







Mal è la forma tronca tanto dell’avverbio ‘male’ (mal nutrito) quanto dell’aggettivo ‘malo’ (mal partito). Nel primo caso non si apostrofa mai (mal accetto); nel secondo si apostrofa esclusivamente davanti a sostantivi femminili che, ovviamente, cominciano con vocale: mal’erba.
E a proposito di ‘male’, non tutti i vocabolari concordano sul plurale di malcostume (o mal costume). Alcuni registrano la forma normale: malcostumi. Altri, invece, come il Devoto-Oli, il Sabatini Coletti, il Gabrielli e il Sandron, fanno mutare la desinenza di entrambi i componenti (male e costume): malicostumi (o mali costumi). Lo Zingarelli, infine, dà entrambi i plurali. Un povero cristo come deve regolarsi? A nostro modo di vedere seguendo la forma ‘normale’: malcostumi.

Il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, non specificando il plurale lascia intendere che la forma corretta è quella 'normale': malcostumi.

Una ricerca con Google ha dato: 412.000 occorrenze per malcostumi e 4.520 per malicostumi.

giovedì 24 maggio 2012

La soprano e la studente





La platea era gremitissima, tutte le piú alte personalità del mondo dello spettacolo erano intervenute per acclamare la grande cantante: Car-la, Car-la. Lei, la protagonista, non era piú in sé per la gioia: sarebbe stato il giorno del suo trionfo quando, sul palcoscenico, il ministro del turismo e dello spettacolo le avrebbe imposto la corona di «Regina dei soprani».
Non fu cosí, purtroppo, l’emozione tradí Carla, che prese una stecca e il pubblico, prontissimo, trasformò la sala in un uragano di fischi. La carriera del soprano tramontò ancora prima di cominciare.
L’espressione «fare una stecca» o «prendere una stecca», cioè non prendere una nota con la giusta intonazione, quindi ‘stonare’, deriva dal gioco del biliardo. Gli appassionati di questo gioco la conoscono bene: quando un giocatore colpisce male la palla con la stecca, questa fa un suono ‘strano’, come se si scheggiasse, donde la locuzione «fare una stecca falsa».
Dal gioco del biliardo, ‘per simpatia’, l’espressione è passata al mondo della musica e si riferisce alla persona che quando canta ‘stecca’, cioè stona.
Per quanto attiene al soprano c’è da dire che questo termine è nato maschile e deve rimanere tale, anche se oggi è invalso l’uso di ritenerlo femminile (con l’avallo di certi vocabolari): la soprano Carla Brambilla. Fino ad alcuni secoli fa, alle donne era proibito calcare le scene, le parti femminili, quindi, erano affidate a uomini ‘particolari’ la cui voce era di timbro piú elevato in confronto alle altre; era, cioè, “sopra” alle altre, donde, appunto, “soprano”. Diremo, perciò, ‘il’ soprano Carla Brambilla.
Visto che siamo in tema di “femminismo”, due parole sul femminile di studente. Qualche pseudolinguista sobbalzerà sulla sedia davanti a «la studente». Il participio presente dei verbi è anche un aggettivo e in quanto tale prende la desinenza del genere al quale si riferisce. Poiché il participio presente dei verbi termina in ‘-e’ fa parte della schiera degli aggettivi della II classe, come facile, difficile, che hanno un’unica desinenza tanto per il maschile quanto per il femminile: un problema facile, una soluzione difficile. Studente, per tanto, considerato un “aggettivo verbale” della II classe può benissimo rimanere invariato nella forma femminile: la studente Giovanna Giovannetti. È lo stesso caso, insomma, di ‘cantante’, nessuno direbbe la ‘cantantessa’. Perché, dunque, dobbiamo avere la ‘studentessa’?
Amiche ‘studenti’, state tranquille, non vogliamo assolutamente indurvi in un falso errore, dite e scrivete pure, se volete, «studentessa», ma nessun professore, con la ‘P’ maiuscola, potrà sottolineare con la fatidica matita blu «la studente».

martedì 22 maggio 2012

Non fate gli indiani...




Siamo stati sommersi dai messaggi di alcuni blogghisti che, spalleggiati dai vocabolari, ci hanno contestato la correttezza di comproduzione: a loro avviso la grafia corretta è “coproduzione”. Poiché non è nostro costume dare informazioni errate, soprattutto per ciò che concerne la Lingua, affidiamo la nostra “difesa” al Dizionario Linguistico Moderno del compianto glottologo Aldo Gabrielli.

«Coproduzione è brutto neologismo, specialmente del gergo cinematografico. In buon italiano il prefisso co- (per ‘con-’) si costruisce solo dinanzi a vocale:coabitazione, coincidenza, cooperare, coutente. In ogni altro caso si ha il prefisso con-, mutato anche in com- o assimilato. La forma logica e giusta dovrebbe essere, quindi, comproduzione». E aggiunge che la forma coproduzione anche se in uso è errata.

Riteniamo doveroso, per tanto, soffermarci, ancora una volta, sul corretto uso del prefisso con-. Detto prefisso perde la ‘n’ davanti a parole che cominciano con vocale: coautore, coinquilino; muta la ‘n’ in ‘m’ davanti alle parole che cominciano con le consonanti ‘b’ e ‘p’: combaciare, comproprietario (a proposito: perché si può dire benissimo ‘comproprietario’ e non si può dire, invece, ‘comproduttore’? Non è lo stesso caso?); si assimila davanti a parole che cominciano con le consonanti ‘l’, ‘r’, ‘m’: collaboratore, correlatore, commilitone. L’assimilazione, ricordiamolo, è un processo linguistico per cui dall’incontro di due consonanti la prima diventa uguale alla seconda, cioè si “assimila”.

Tornando alla parola ‘incriminata’, comproduzione, facciano attenzione i produttori cinematografici quando mettono sulla piazza un film in ‘coproduzione’ perché – come fa notare il Gabrielli – quel ‘copro’ iniziale ci richiama alla memoria altri composti come coprofagia, coprocoltura dove quel ‘copro’, derivato dal greco, sta a significare “sterco”. Un film in ‘coproduzione’, quindi…

Amici della carta stampata e no, non fate gli indiani, sapete benissimo di avere un gravoso compito: educare la gente anche e soprattutto sotto il profilo linguistico. Non diffondete parole errate come, per l’appunto, coproduzione.

Ah, dimenticavamo. Crediamo sia chiaro a tutti il significato dell’espressione “fare l’indiano”, ossia far finta di non capire. Questa locuzione è nata dalla figura dell’indigeno stereotipato, esattamente dell’abitante delle Indie occidentali, che agli occhi degli uomini europei appariva assente, sbalordito, dando la chiara impressione, appunto, di non capire.

lunedì 21 maggio 2012

Il linguaggio






In queste noterelle non abbiamo mai trattato del linguaggio nella sua accezione piú ampia. Se cosí non fosse ci scusiamo “preventivamente” con gli amici blogghisti per la ripetizione. Vogliamo vederla, dunque? Con il termine linguaggio si intende “qualunque mezzo che serve per la comunicazione di un messaggio, di un pensiero, di un’idea, ecc”. In questo senso sono forme di linguaggio i suoni, i gesti, le espressioni del volto, i disegni, le segnalazioni le piú svariate (come potrebbero, anzi, possono essere le luci di un semaforo). La forma di messaggio, o meglio di “linguaggio” piú espressiva, piú potente, piú precisa – come si sa – si avvale della parola: il linguaggio, infatti, nella sua accezione primaria, quindi in senso proprio, è – potremmo dire – “l’uso delle parole, scritte e orali, secondo una regola convenzionale” che costituisce l’idioma di una collettività nazionale e no.

Ogni idioma o, se preferite, linguaggio, presenta diversi livelli: a) lingua ufficiale o formale, strettamente legata alle caratteristiche grammaticali di cui è espressione, ma proprio per questo spesso arida, impersonale seppur “elegante”; b) lingua comune, molto spesso non rispettosa delle “regole” convenzionali ma piú viva ed espressiva, adoperata da tutti (lingua “comune” per le piú consuete esigenze di comunicazione; c) lingua familiare o popolare, usata da una cerchia molto ristretta di “utenti”, piú approssimativa ma piú ricca di efficacia espressiva (basti pensare alla “comunicativa” di certe espressioni dialettali). Ogni linguaggio, è noto, si adegua all’uso acquistando in tal modo – soprattutto sotto il profilo lessicale – diversificazioni dovute all’influenza dei vari “settori d’uso”. Tali diversificazioni determinano e caratterizzano i cosí detti linguaggi settoriali, vale a dire quel tipo di linguaggio che non sarebbe azzardato chiamare “gergo”, quei linguaggi legati a specifici settori professionali e di mestieri.

Il gergo, infatti, come specificano i dizionari è ogni “linguaggio convenzionale limitato a una ristretta categoria sociale” (il gergo della malavita, per esempio) e, per estensione, “ogni linguaggio artificiosamente diverso dal linguaggio comune” (il gergo burocratico per esempio). I linguaggi settoriali, per tanto, possono essere esemplificati in linguaggio giornalistico, tecnico, politico, scientifico, economico, sportivo, pubblicitario e via dicendo.

domenica 20 maggio 2012

Ratire


Pregiatissimo Dott. Raso,
ancora una volta approfitto della sua nota cortesia per un ulteriore quesito. Mi è capitata sotto gli occhi una pagina di un giornale (non so di quale anno) in cui era incartato il pesce che mia moglie aveva acquistato al mercato. Un titolo ha attirato la mia attenzione: «Il malcapitato, ratente, è stato trasportato subito in ospedale». Che cosa significa “ratente”? Credo sia superfluo dirle che i vocabolari, da me consultati, non mi “hanno risposto”. Spero in lei. Ringraziandola anticipatamente dell’eventuale risposta, le porgo i miei più cordiali saluti.
Ludovico L.
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Cortese Ludovico, ratente è il participio presente del verbo ratire e significa “rantolare”. Il poverino, quindi, già rantolava quando è stato trasportato in ospedale. Onestamente non so dirle perché il suddetto verbo sia ignorato dai vocabolari non essendo stato ancora relegato, credo, nella soffitta della lingua. Ho fatto una piccola ricerca nella Rete, mi sembra lo attesti solo il sito “Garzantilinguistica.it”. Faccio il copincolla: [ra-tì-re]
Lat. volg. *ragita¯re 'muggire, strillare', con cambio di coniugazione
v. intr. [io ratisco, tu ratisci ecc. ; aus. avere] (ant.) rantolare; emettere l'ultimo respiro.
Guardi anche questo collegamento:
https://www.google.it/search?tbm=bks&hl=it&q=%22ratire%22

venerdì 18 maggio 2012

«Vendere alla tromba»






Le televisioni commerciali hanno riscoperto e portato a conoscenza del grande pubblico l’uso delle vendite all’asta. Non c’è un’emittente privata, infatti, che non proponga al telespettatore, comodamente seduto in poltrona, l’acquisto di un tappeto persiano o di un mobile d’epoca venduto all’incanto.

Siamo sicuri, quindi, di suscitare l’interesse degli amici blogghisti spiegando l’origine di questa vendita chiamata, appunto, all’asta o all’incanto. Come sempre, a onta dei detrattori, dobbiamo ricorrere al padre della nostra lingua, il nobile latino: vendere sub hasta, hastae subicere.
Spiegano, in proposito, il Battisti e l’Alessio che questo modo di vendere, tratto dalla locuzione latina sub hasta vendere, deriva dall’uso romano di vendere i beni dei debitori del tesoro pubblico presso un’asta conficcata in terra, simbolo della proprietà quiritaria. In seguito si disse anche vendere alla tromba perché tali vendite si annunciavano, appunto, col suono di una tromba.

Vendere all’incanto, cioè sempre all’asta, e al miglior offerente, proviene, invece, dal tardo latino, il latino medievale in quantum (composto con ’in’ e ‘quantum’): a quanto?, sottinteso prezzo. Il venditore stabilisce un in quantum, cioè un prezzo iniziale, colui che offre di piú si aggiudica l’asta, diventa, cioè, possessore dell’oggetto posto “all’incanto”. Non si confonda, per tanto, l’incanto, cioè la vendita all’asta, con l’altro incanto nell’accezione di incantesimo, magia. Quest’ultimo termine ci è stato tramandato dal verbo latino incantare, composto di ‘in’ e ‘cantare’, intensivo di ‘canere’.

giovedì 17 maggio 2012

«Intuntare»





Tra i verbi che ci piacerebbe fossero ‘riesumati’ segnaliamo intuntare, cioè raccogliere con il pane l’unto nel piatto. Insomma, fare la cosí detta scarpetta. Per quest’ultimo modo di dire rimandiamo a un nostro intervento: http://faustoraso.blogspot.it/2010/06/fare-la-scarpetta.html . Il verbo, non attestato nei vocabolari dell’uso, si può trovare, invece, cliccando sul collegamento in calce.

https://www.google.it/search?tbm=bks&hl=it&q=%22intuntare%22

mercoledì 16 maggio 2012

La zozza e la ladra


Ci sembra interessante portare all’attenzione degli amici blogghisti, che seguono queste noterelle, il significato ‘nascosto’ di due parole di uso comune: zozza e ladra. Il primo termine, variante dialettale romanesca di sozza, sudicia, ha anche il significato di ‘miscela di liquori scadenti e forti’: ho ordinato un liquore e mi hanno servito una zozza. Il secondo termine, il cui significato primario è noto a tutti, ha anche l’accezione di tasca, quella interna della giacca: mi raccomando, Pasquale, quando sei sull’autobus accertati che la ladra sia chiusa bene. I lettori toscani dovrebbero conoscere entrambi i termini essendo particolarmente in uso nella loro regione.
Leggiamo dal Treccani: «żòżża s. f. [alteraz. pop. di suzzacchera], tosc. –
Bevanda composta da una mescolanza di liquori di qualità scadente: E z. ancora! e z. ancora! un gocciolo Ancor di questa manna (Carducci); un bicchierino di zozza, con cui annaffia il primo boccon di pane della giornata (Bacchelli); anche, minestra acquosa e cattiva, brodaglia: una z. disgustosa».
«Ladra s. f. [femm. di ladro]. – Oltre che riferito, nel sign. proprio, a donna che ruba (è una l.; e come agg., una commessa, una cassiera l.), ha, nell’uso toscano, i seguenti sign. estens.:
a. Tasca interna dell’abito maschile (o anche del soprabito e sim.), spec. quella dalla parte del petto dove generalmente si tiene il portafoglio.
b. Tasca posteriore della giacca del cacciatore, spesso foderata di tela impermeabile, destinata a contenere la selvaggina uccisa».


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Il/la sottoscritto/a ... 'chiedo'

Il modulo da compilare e presentare all'Ordine dei giornalisti della Campania per l'iscrizione all'elenco professionsti contiene un errore da emendare. Lo abbiamo fatto notare all'Ordine, ma siamo stati ignorati. "Chiedo" va corretto in 'chiede' perché il soggetto è di terza persona (il sottoscritto). Quindi: 'Il sottoscritto/a chiede' oppure 'io sottoscritto/a chiedo'.

Si veda questo collegamento:

http://www.odg.campania.it/resources/doc/Mod_Professionisti.pdf




martedì 15 maggio 2012

Il dittongo? È... mobile


Gli abitanti di Siena si chiamano Senesi (senza la ‘i’); i derivati di scuola, come scolaro, scolastico si scrivono senza la ‘u’: come mai questa mancanza di uniformità? Come mai in queste parole, come in moltissime altre, del resto, cadono dalla parola-madre le vocali ‘i’ e ‘u’? È presto detto. Si tratta di vocaboli che al loro interno contengono il cosí detto dittongo mobile. Vediamo, innanzi tutto, che cosa è un dittongo.

Si chiama cosí l’unione di due vocali pronunciate con una sola emissione di voce e che, di conseguenza, costituiscono una sillaba unica. Il dittongo, il cui nome deriva dal greco diphthongos (suono doppio) è dato dall’incontro di una vocale forte o aspra (a, e, o) con una debole o dolce (i, u): suono, fuoco, cielo; oppure dall’incontro di due vocali deboli o dolci: fiume, piuma.

A loro volta si dividono in dittonghi ascendenti e discendenti, secondo la posizione dell’accento tonico. Saranno ascendenti se l’accento tonico (accento che si “sente” ma non si segna) cade sulla seconda vocale: buono; discendenti se l’accento tonico cade sulla prima delle due vocali: reuma, feudo.

Tra i dittonghi ve n’è uno particolare chiamato, appunto, dittongo mobile perché, come dice la stessa parola, “si muove” a seconda della posizione dell’accento tonico. Per essere estremamente chiari diremo che in grammatica (la fonetica) prende il nome di mobile quel dittongo che resta tale quando si trova in sillaba accentata e si contrae, invece, in semplice vocale quando si trova fuori della sillaba accentata. Vediamo di spiegarci meglio con alcuni esempi. Abbiamo detto, all’inizio di queste noterelle, che gli abitanti di Siena si chiamano senesi (senza la ‘i’). Vediamo, ora, il motivo della caduta della vocale ‘i’. Da Siena dovremmo avere, per logica, ‘sienesi’ e da scuola, sempre per logica, ‘scuolaro’ e ‘scuolastico’. A questo punto occorre prestare molta attenzione alla pronuncia, in particolare all’accento tonico.

Da Siena, quando formiamo l’aggettivo senese, l’accento tonico si sposta dal dittongo ‘ie’ sulla sillaba successiva, di conseguenza il dittongo ‘ie’ si contrae in semplice vocale: Sièna > senése (abbiamo segnato gli accenti per maggiore chiarezza). Lo stesso discorso per i derivati di scuola: scuòla, scolàro, scolàstico. Il motivo della mobilità di questi dittonghi sta, dunque, tutto nella forza della pronuncia, dell’accento in particolare, ed è una conseguenza dovuta al passaggio dei vari ‘suoni’ dal latino (sempre lui!) all’italiano.

Molti verbi devono essere coniugati secondo la regola del dittongo mobile, che non tutti, però, rispettano. Cosí il futuro del verbo ‘sedere’ sarà: sederò, sederai, sederà ecc. e non ‘siederò’, ‘siederà’ (anche se alcuni vocabolari l’ammettono). Analogamente il condizionale sarà sederei ecc.

In musica non abbiamo, infatti, la sonata in fa minore? Nessuno, riteniamo, direbbe la ‘suonata’. Perché, allora, sovente, per non dire sempre, dobbiamo leggere ‘infuocato’ in luogo del corretto infocato? Chi dice e scrive infuocato dovrebbe dire e scrivere, per coerenza, sfuocato. Perché ‘promuovendo’ invece di promovendo? ‘Nuociuto’ anziché nociuto?



lunedì 14 maggio 2012

Riso sardonico






Ormai era evidente, il rag. Derossi, dopo trenta anni di duro lavoro al servizio dell’Azienda, cominciava ad accusare un po’ di stanchezza e, alcune volte, dava i numeri. Se ne rese conto personalmente un impiegato quando, convocato dal Derossi per una pratica, vide il ragioniere, con un riso sardonico, puntargli una pistola ed esclamare: «Ora basta! Non sono affatto soddisfatto di lei, la sfido all’arma bianca!»
Era evidente, dicevamo, che la stanchezza accumulata in oltre trent’anni di lavoro stava giocando un brutto scherzo al capufficio.

La pistola, come tutti sanno, non è un’arma bianca. Si chiamano ‘armi bianche’ quelle da taglio o da punta (baionetta, sciabola, spada, pugnale) perché, secondo il linguista Ottorino Pianigiani, il loro nome deriva dal tedesco blanch che, oltre a bianco, significa ‘luccicante’, ‘splendente’, «onde il senso primitivo si conserva nell’espressione… ‘arma bianca’… congiunto a blinken: scintillare, brillare».

Quanto all’espressione dare i numeri che, come sappiamo, significa ‘parlare a vanvera’, dire delle cose che non hanno alcun senso o che non sono in logica relazione con ciò di cui si parla, deriverebbe dalla professione degli indovini che, secondo interpretazioni di avvenimenti o visioni oniriche, consiglierebbero dei numeri da giocare al lotto. Poiché, ovviamente, i numeri non sempre “escono” sarebbe nato questo modo di dire.

Il riso sardonico, cioè maligno, provocatorio, pieno di derisione o di sarcasmo, è provocato da un’erba velenosa, usata anche in medicina: ranunculus sceleratus. Si riteneva, anticamente, che questa pianta crescesse solo in Sardegna (donde il nome di riso sardonico) e che provocasse in chi la ingeriva improvvise contrazioni dei muscoli facciali, dando l’impressione che il malcapitato, appunto, ridesse.

E a proposito del riso, ma non sardonico, ci piace riportare un pensiero di Giacomo Leopardi: «Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso: contro il quale nessuno nella sua coscienza trova sé munito da ogni parte. Chi ha il coraggio di ridere è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morire».

domenica 13 maggio 2012

Punto, due punti, punto e virgola

Vi sono persone, anche quelle cosí dette acculturate, che non riescono a comprendere l’importanza della punteggiatura in uno scritto: sia esso una lettera di saluti a un amico sia esso una domanda di rimborso indirizzata all’ufficio delle Imposte.
La mancanza di punteggiatura o, peggio, l’errata collocazione dei segni d’interpunzione dà adito, il piú delle volte, a un’interpretazione del nostro scritto completamente diversa dalle nostre intenzioni.
Ricordiamo, a questo proposito, la storiella – che probabilmente tutti conoscono – di frate Martino. Il religioso aveva ricevuto l’incarico, dai superiori, di scrivere sul portale della chiesa la seguente frase, in latino: Questa porta resti sempre aperta. A nessuna persona onesta sia mai chiusa in faccia. Il poverino, però, sbagliò la collocazione del punto e l’iscrizione risultò cosí: Questa porta non resti mai aperta. Resti chiusa in faccia alle persone oneste. Lo “scherzetto” del punto gli costò la carriera: non divenne abate. Da questo episodio nacque il detto E per un punto Martin perse la cappa (cioè il mantello di abate).
Vediamo, quindi, sia pure per sommi capi, l’uso corretto della punteggiatura (anche per non correre il rischio di vedere respinta la nostra domanda di rimborso, a causa dell’errata punteggiatura, da uno zelante impiegato delle Imposte).
Cominciamo dal segno d’interpunzione piú semplice e piú comunemente adoperato: la virgola. Questo segno grafico serve per indicare tutte le pause piú brevi del nostro discorso e anche per separare tutti i termini in una elencazione. È grave errore metterla tra il soggetto e il verbo e tra il verbo e i complementi.

Il punto (detto anche punto fermo) si usa per indicare una pausa piú lunga della virgola e si mette dopo un frase o un periodo con senso compiuto.

Il punto e virgola indica una pausa che è una via di mezzo tra la virgola e il punto fermo e segna il distacco tra frasi o periodi che hanno una stretta relazione fra loro. È un segno che non tutti sanno adoperare a dovere; se ben collocato, invece, dà al nostro discorso una particolare efficacia espressiva.

I due punti indicano una pausa nel corpo del periodo; pausa che si fa prima di riportare risposte e parole altrui o prima di una elencazione di cose o di concetti; o quando il concetto che segue è una spiegazione o un rafforzamento di quello precedente. Si possono adoperare una volta sola per ogni frase.

Per quanto attiene al punto interrogativo e a quello esclamativo, non crediamo presentino particolari difficoltà d’impiego.

* * *

È proprio vero, la lingua, al contrario della matematica, è un’opinione. Una riprova? Guardate come tre vocabolari dividono in sillabe uno stesso termine: suicidio.
Dizionario Sabatini Coletti in rete: [sui-cì-dio]
Dizionario Gabrielli in linea: [sui-cì-di-o]
GRADIT: [su-i-ci-dio].
Tre vocabolari, tre versioni diverse, come avete visto.
Una persona sprovveduta in fatto di lingua non sa veramente come deve regolarsi.


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Un augurio a tutte le mamme che seguono queste modeste noterelle.



sabato 12 maggio 2012

Una vittoria personificata






Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
1. antonio scrive:
11 maggio 2012 alle 22:03
Buonasera.Vorrei gentilmente conoscere quale tra le quattro risposte possibili alla seguente domanda, sia quella più giusta ed il motivo.
Nella frase “hai sentito della nostra vittoria? Tutti ne parlano.” che funzione ha la particella “ne”?
a) Pronome dimostrativo.
b) Congiunzione negativa.
c) Pronome personale.
d) Avverbio di luogo.
Inoltre è possibile che a tale domanda siano possibili 2 risposte e se si quali?
Ringrazio e porgo cordiali saluti.

2. linguista scrive:
11 maggio 2012 alle 23:47
Pronome personale: corrisponde al sintagma preposizionale di essa.
Fabio Ruggiano
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Ci spiace dissentire recisamente dal linguista. Nel caso specifico la particella ne è, sí, un pronome, ma non personale (a meno che, per virtù magica, la ‘vittoria’ non si sia personificata).

venerdì 11 maggio 2012

La morte della lingua italiana



Stanno uccidendo l'idioma di Dante. Preghiamo perché gli assassini si pentano.

Cliccate sul collegamento in calce.


http://www.ladante.it/?q=comunicatistampa/italiano-escluso-all%E2%80%99universit%C3%A0-presa-di-posizione-della-societ%C3%A0-dante-alighieri

Sull'uso di alcuni prefissi


Siamo certi di non tediare i nostri gentili amici se spendiamo due parole sull’uso corretto di alcuni prefissi. Il prefisso, dunque, viene dal latino “praefixus” (messo prima), participio passato sostantivato del verbo “praefigere” (prefiggere). I grammatici chiamano prefisso quelle parole, solitamente avverbi o preposizioni, che si mettono prima, appunto, di un’altra parola per modificare il significato della parola stessa. I prefissi che piú frequentemente ci capita di usare sono: dis, neo, maxi, mini. Vediamo, nell’ordine, il loro corretto impiego. C’è da dire, innanzi tutto, che contrariamente a quanto ci ‘propina’ certa stampa, i prefissi debbono essere uniti alla parola che segue; non possono essere scritti staccati o, peggio, uniti alla parola con un trattino.
Dis (o de): questo prefisso viene usato, generalmente, per indicare un’idea di allontanamento, di privazione (de privativo: disattivare, ‘rendere inattivo’; disabituato, 'non piú abituato');
Neo: anche se alcuni “autorevoli” testi di grammatica lo classificano tra i prefissi non è propriamente tale e se ne fa un abuso, meglio lasciarlo alle parole della storia (neocapitalismo, neoghibellino);
Maxi e mini sono dei prefissi che servono per indicare, rispettivamente, la grandezza e la piccolezza, oltre il normale, di una determinata cosa. Anche di questi oggi se ne fa un uso indiscriminato; meglio relegarli al campo della moda. Ci sono tantissime altre espressioni che rendono l’idea della grandezza e della piccolezza. Abbiamo volutamente tralasciato il prefisso con perché ne abbiamo parlato svariate volte a proposito della contestatissima (ma correttissima) parola comproduzione. Per concludere possiamo dire che chi nello scrivere non rispetta le norme che regolano l’uso dei prefissi prende una grandissima “cantonata” grammaticale. Quest’espressione trae origine – probabilmente – dai cantoni (angoli) delle case cui cozzavano i carri quando transitavano per le strade strette e contorte dei nostri pittoreschi paesini.

giovedì 10 maggio 2012

Reato di lesa lingua


Le cronache dei giornali ci hanno abituato, ormai da tempo immemorabile, all’impatto continuo con il termine bustarelle usato per indicare il malcostume che regna in alcune istituzioni pubbliche e no. Non è di questo che vogliamo occuparci, però, anche perché non è nostro compito ‘moralizzare’ i gangli dello Sato, degli Enti locali e delle varie industrie pubbliche e private: per questo c’è la magistratura. Noi ci sentiamo in dovere, per la parte di nostra competenza, di ‘moralizzare’ i “fruitori” di questo termine scritto il piú delle volte (per non dire sempre) in modo errato: bustarella, con la ‘a’ anziché con la ‘e’. La grafia corretta è, dunque, busterella. Occupiamoci, quindi, della formazione di alcuni diminutivi osservando scrupolosamente le leggi grammaticali rassicurando, nel contempo, coloro che ostinatamente non vorranno rispettarle: in questo caso la magistratura non ha alcun potere; il reato di “lesa lingua” non è previsto nel codice penale. Se cosí fosse le patrie galere non avrebbero piú posto per accogliere gli ‘ospiti’, specialmente quando ci capita di leggere (o di sentire) che «a causa dell’incidente automobilistico il poverino versa ‘in pericolo di vita’». Il pericolo, quindi, per chi scrive simili sciocchezze, è che il malcapitato “viva”, non che muoia. Pericolo di vita, stando alla lingua, significa possibilità di sopravvivenza. In buona lingua si dice pericolo di morte. Ma torniamo alla busterella. Per quanto riguarda la formazione del diminutivo, la regola stabilisce che occorre togliere la desinenza e aggiungere al tema della parola in questione il suffisso -erella (-erello, maschile singolare; -erelli, maschile plurale; -erelle, femminile plurale). Da busta, quindi, togliendo la desinenza ‘-a’ avremo il tema bust al quale aggiungeremo il suffisso -erella: busta, bust, busterella. Lo stesso discorso per quanto attiene ad ‘acquarello’, la forma in regola con la grammatica è acquerello (con la ‘e’). Alcuni dizionari ammettono entrambe le grafie, noi consigliamo di attenersi rigidamente alla “legge grammaticale”: acquerello. Quanto alla tintarella, il linguista Carlo Tagliavini consiglia di non seguire la regola grammaticale (tinterella, ndr) ma di attenersi alla grafia di origine dialettale romana, entrata ormai nella lingua nazionale.

mercoledì 9 maggio 2012

Discorso e discusso







Si è portati a ritenere che discusso sia il participio passato del verbo discorrere: abbiamo discusso su tutto. No, amici, si presti attenzione. Il participio passato di discorrere è discorso: abbiamo discorso tutto il tempo trascorso in treno. Vediamo la differenza, dunque, tra discusso e discorso. Il primo è il participio passato di discutere per il cui significato ricorriamo al vocabolario Gabrielli in rete:

«1 Trattare, esaminare in maniera particolareggiata una questione, un argomento, tra due o più persone che manifestano ciascuna il proprio parere, allo scopo di accertare la verità, di decidere e sim.: d. una causa, un disegno di legge; d. il pro e il contro di una proposta; d. di politica; d. su una faccenda importante; d. intorno a una questione.
2 Criticare con obiezioni, contrastare: gli ordini non si discutono; c'è poco da d.
3 estens. Bisticciare, altercare, questionare: smettetela di d.».

E veniamo al secondo, participio passato di discorrere. Anche in questo caso ricorriamo, per il significato, al Gabrielli in rete:

«A v. intr. (aus. avere).
1 Parlare piuttosto diffusamente con qualcuno di argomenti vari: passiamo le giornate lavorando e discorrendo; d. d'arte, di politica.
‖ Discorrere del più e del meno, conversare tranquillamente, senza un argomento preciso.
‖ E via discorrendo, eccetera.
‖ Un gran discorrere, molte chiacchiere.
2 lett. Correre qua e là: vedea nel pian d. / la caccia affaccendata Manzoni.
3 dial. Avere una relazione sentimentale.
B v. tr.
1 raro Attraversare, percorrere
2 raro, fig. Scorrere con la mente».

Possiamo concludere, quindi, affermando che se si discorre non si litiga, se si discute si può anche litigare: Giovanni e Rocco, seduti su una panchina, discorrevano di teatro; Rodolfo e Bernardo discutevano su chi dovesse restare in casa ad accudire alla madre inferma. I relativi sostantivi corrispondenti sono discussione e discorsa, quest’ultimo non comune e con una connotazione spregiativa.
Si veda questo collegamento:
http://faustoraso.blogspot.it/2011/10/il-discorso-e-la-discorsa.html

martedì 8 maggio 2012

Il linguaggio delle nuove generazioni






Un'interessante lezione del linguista Massimo Arcangeli.
Si clicchi su
:
http://www.treccani.it/webtv/videos/Int_Massimo_Arcangeli_linguaggio_giovani.html


(Il video non funziona sempre correttamente).

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Noto al popolo e al comune…

… vale a dire ‘è un fatto risaputo’, ‘cosa che tutti conoscono’. L’espressione completa e di uso raro è noto al popolo, al comune e al contado. Questo modo di dire risale al tempo delle antiche “grida”, cioè delle disposizioni di legge, che i banditori con il tamburo ‘gridavano’ in pubblico e alle quali dovevano attenersi tutti gli abitanti del contado e delle zone limitrofe.

lunedì 7 maggio 2012

Inadempienza? Voce correttissima






Il “confronto” tra il Dizionario Gabrielli in rete e il “Dizionario Linguistico Moderno”, dello stesso Autore, non finisce mai di stupirci per le contraddizioni. Al lemma inadempienza il vocabolario in rete scrive: «inadempienza
[i-na-dem-pièn-za]
s.f.
Inosservanza di un obbligo assunto: è stato condannato per i. contrattuale». Nel “Dizionario Linguistico Moderno” si legge, invece: «Inadempienza è voce non registrata nei dizionari, come non è citato il suo contrario ‘adempienza’; avendo l’italiano ‘adempimento’ dovrà quindi dirsi ‘inadempimento’; piú comune però ‘inosservanza’». Per quanto attiene ad adempienza, sí, non è voce registrata nel vocabolario Gabrielli in rete, si trova però nel GRADIT, nel Treccani e nello Zingarelli.

domenica 6 maggio 2012

Un'autobomba, due autobombe







Forse è il caso di ricordare ai vari “dicitori” dei… vari radiotelegiornali che il sostantivo femminile autobomba pur essendo un nome composto si pluralizza normalmente, vale a dire mutando la desinenza “-a” in “-e”: l’autobomba, le autobombe. Nella forma plurale, insomma, non resta invariato, come abbiamo ripetutamente sentito. Il sostantivo in oggetto segue la regola del plurale dei nomi composti secondo la quale, se i due sostantivi sono dello stesso genere, prende la desinenza del plurale il secondo elemento: un’auto(mobile)bomba, due autobombe. Nessuno si sognerebbe di dire, per esempio, due autocisterna ma, correttamente, due autocisterne. Perché, dunque, autobomba non dovrebbe avere il normale plurale?

sabato 5 maggio 2012

Una tavola ben franca







«Guarda se quella tavola è ben franca, altrimenti si può scivolare». Secondo alcuni sedicenti linguisti ciò che avete appena letto non “fa una grinza”, come usa dire. La fa, la fa, eccome se la fa. La fa perché l’aggettivo franco nell’accezione di sicuro, fermo, solido, saldo e simili non può riferirsi a cose materiali. Bisogna dire, quindi, «guarda se quella tavola è ben ferma», non ben franca. In lingua italiana corretta l’aggettivo suddetto significa libero e, in senso figurato, disinvolto: sii franco, cioè aperto, disinvolto e simili.

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Perché è morta la salvanza?

Un interessante articolo di Gianluigi Beccaria

http://www3.lastampa.it/libri/sezioni/parole-in-corso/articolo/lstp/451083/

venerdì 4 maggio 2012

Gli agriturismo o gli agriturismi?





Dalla rubrica “Leggere e scrivere” del Corriere della Sera in rete:
Agriturismi e agriturismo
Quasi tutti i quotidiani hanno oggi titolato : " nel mirino (o frasi simili) gli "agriturismi". Mi è crollata una certezza. Che consisteva nel denominare la parola composta al singolare "agroturismo" da cui plurale "agriturismo" e mai l'orribile agriturismi con doppio plurale.
(pomodoro, pomidoro, e non pomidori).
Sbaglio?
Grazie
(Firma)
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Il titolare della rubrica non ha risposto. Ci eravamo permessi di farlo noi, ma il moderatore ci ha cassato. “Agroturismo” è scorretto, non è attestato, infatti, nei dizionari. Il vocabolo corretto è “agriturismo” [agri(colo) + turismo], cioè ‘turismo agricolo’. Il plurale, per tanto, si forma regolarmente mutando la desinenza “-o” in “-i”: l’agriturismo, gli agriturismi. Quanto al plurale di pomodoro, la sola forma corretta – a nostro modesto avviso – è pomodori; le altre forme sono regionali o popolari.

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Aspettare il porco alla quercia

Chi aspetta il porco alla quercia?, come recita il modo di dire che avete appena letto. Colui che aspetta l’occasione buona per fare qualcosa, in particolare per vendicarsi di qualcuno, partendo dal presupposto che l’occasione prima o poi arriverà. E il maiale che cosa c’entra? L’immagine è quella della persona che sta vicino a una quercia aspettando il porco, che arriverà certamente perché ghiottissimo di ghiande.

giovedì 3 maggio 2012

Come è nata la cappella



Gentilissimo dott. Raso,
la ringrazio sentitamente per la tempestiva e esaustiva risposta riguardo al verbo “ruticare”. Mi permetta di ringraziare anche la gentile Ines Desideri. Ne approfitto per una curiosità. Donde prende il nome di “cappella” quel piccolo edificio adibito al culto? Grazie di nuovo per la sua non comune disponibilità e cortesia. Con i tempi che corrono…
Cordialmente suo
Alfonso C.
Rovigo
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Caro Alfonso, lei dice di seguirmi dal tempo del “Cannocchiale”. Proprio sul “Cannocchiale” è stato trattato l’argomento che, immagino, le sarà sfuggito. Clicchi, dunque, su
http://faustoraso.ilcannocchiale.it/2008/03/20/il_manto_e_la_cappella.html. Ne approfitto per una piccola aggiunta. Dal manto è nata anche la locuzione, adoperata in senso figurato, deporre il manto, cioè rinunciare a un alto titolo.

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Dimergolare

Ecco un altro verbo sull’orlo dell’estinzione, non sappiamo, infatti, quanti vocabolari lo attestino ancora. Significa ‘scrollare’, ‘agitare’, come quando si tentenna un chiodo per assicurarsi che sia ben piantato. L’etimologia è oscura. Si adopera (adoperava?) anche come intransitivo pronominale riferito a una persona: quel poveretto, picchiato a sangue dai malviventi, si dimergolava (barcollava, vacillava).

http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=dimergolare&searchfor=dimergolare&searching=true

https://www.google.it/search?tbm=bks&tbo=1&hl=it&q=%22dimergolare%22&btnG=

mercoledì 2 maggio 2012

È solo un salaccaio






Tra le parole in via di estinzione segnaliamo salaccaio: un libro vecchio e di scarso valore, le cui pagine sono utili solo, come fa rilevare Ottorino Pianigiani, per avvolgerci le salacche.

http://www.etimo.it/?cmd=id&id=15216&md=1a7e3f84e6fc67b203bf455db54b4b02

http://www.etimo.it/?cmd=id&id=15215&md=a0adfc8da1371b0991294887b22e058f

http://it.wikipedia.org/wiki/Salacca

martedì 1 maggio 2012

«Ruticare»


Egregio Prof. Raso,
la seguo fin dai tempi del “Cannocchiale”. Dalle sue “noterelle” ho appreso “cose linguistiche” che non si trovano nelle comuni grammatiche e nei comuni vocabolari. Non le ho mai scritto, lo faccio ora per le insistenze di mio figlio (III media) perché il suo insegnante di lettere dice che c’è un verbo atto a indicare una persona che si muove piano piano e con molta fatica e vuole sapere, appunto, dai suoi allievi qual è il verbo che fa alla bisogna. I vocabolari in nostro possesso… tacciono. Confido in lei. Con l’occasione le porgo i miei sentimenti di stima e la ringrazio anticipatamente per l’eventuale risposta.
Alfonso C.
Rovigo
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Sí, cortese Alfonso, il verbo di cui parla l’insegnante di suo figlio esiste, anche se non attestato nei comuni vocabolari dell’uso, mi sembra lo riporti solo il GRADIT: ruticare o ruticarsi. Leggo, dunque, dal GRADIT: «Verbo pronominale intransitivo (io mi rutico) [der. di ruticare] 1. muoversi, agitarsi, dimenarsi; 2. di pianta, propagarsi strisciando a terra». Per l’ “origine etimologica” la rimando a questo collegamento:
http://www.etimo.it/?term=ruticare&find=Cerca.
Veda anche quest'altro collegamento:
https://www.google.it/search?tbm=bks&tbo=1&hl=it&q=%22ruticare%22&btnG=