sabato 31 marzo 2012

Un «tecomeco»








Cortese dott. Raso,
esiste un termine per definire una malalingua; una persona che parla male di te agli altri, e agli altri male di te? Mi sembra che ci sia un termine apposito, ma non sono riuscito a “scovarlo” nei vocabolari. Può dirmi qualcosa in merito? Grazie e complimenti per il suo encomiabile lavoro in difesa della nostra bella lingua. Cordialmente.
Costantino C.
Carbonia
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Gentile Costantino, il termine apposito esiste, anzi esisteva ed è tecomeco ma non è piú attestato nei comuni vocabolari dell’uso. Lo può trovare cliccando sui collegamenti in calce.



https://www.google.it/search?tbm=bks&tbo=1&hl=it&q=%22tecomeco%22&btnG=#q=%22tecomeco%

https://www.google.it/search?tbm=bks&tbo=1&hl=it&q=%22tecomeco%22

giovedì 29 marzo 2012

Complemento di causa? Sí, ma quale?





Riteniamo necessario fare un po’ di chiarezza sul complemento di causa. Le grammatiche lo liquidano con due parole: «Indica la causa per la quale si compie l’azione espressa dal verbo e risponde alle domande sottintese ‘perché?', ‘per quale motivo?’ , ‘a causa di che cosa?’ e simili»: Giovanni tremava “per la paura” degli esami; quei poveri barboni sono morti “di freddo”; il traffico è rimasto bloccato “da un incidente” sull’autostrada. La causa per cui avviene ciò che esprime il verbo – ed è questo che non tutti i sacri testi grammaticali riportano – si può distinguere in: ‘causa impediente’, ‘causa esterna’, ‘causa interna’. Vediamo nell’ordine. Causa impediente: indica il motivo che ostacola l’azione del soggetto (‘Per lo sciopero’ dei treni non potrò essere presente); causa esterna: quando indica una ragione esterna al soggetto provocandone una reazione (Sono deluso ‘dal comportamento’ dei miei amici); causa interna: quando indica un motivo interno al soggetto provocandone reazioni psichiche o fisiche (In quell’occasione noi tutti siamo sbiancati ‘dalla paura’). Occorre dire, però, che si tratta di distinzioni di ordine logico che non hanno conseguenze sul piano sintattico-grammaticale. Servono, però, a nostro modesto parere, a sviluppare la capacità di analizzare e ragionare.

mercoledì 28 marzo 2012

«Morfire»




Forse pochi sanno che esisteva un verbo riferito a una persona che mangia avidamente: morfire. Questo verbo, però, non è schiettamente italiano perché sembra provenga dal francese ‘morfier’ ("mangiare con ingordigia"), di probabile origine germanica. Perché, ‘esisteva’? Perché sembra non sia piú attestato nei vocabolari. Almeno quelli in nostro possesso. Si può vedere, comunque, nei collegamenti in calce.

https://www.google.it/search?tbm=bks&tbo=1&hl=it&q=%22morfire%22&btnG=

martedì 27 marzo 2012

«Svignarsela»


Siamo sicuri di non essere lontani dalla “verità” se affermiamo che molte persone, anche quelle cosí dette acculturate, sono convinte – erroneamente – che il verbo ‘svignare’ (‘svignarsela’), vale a dire abbandonare un posto, darsela a gambe, sia di origine dialettale romana. Non è affatto cosí, per l’appunto. Quest’espressione, o meglio questo verbo proviene, con molta probabilità, proprio dalla… vigna, dal latino “vinea”. Nel XVIII secolo il verbo svignare era interpretato nel senso di “fuggire furtivamente dalla vigna” (‘s’ negativo e ‘vigna’) dopo aver rubato l’uva. Con il passare del tempo – attraverso un’evoluzione semantica – il verbo in oggetto ha acquisito l’accezione a tutti nota: abbandonare un luogo, appunto. C’è da dire, però, che il linguista Ottorino Pianigiani dissente su questa tesi e propende per l’origine germanica del verbo. Si veda il collegamento in calce.

http://www.etimo.it/?term=svignare&find=Cerca


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Segnaliamo un sito che potrebbe interessarvi (un vocabolario e altro...)

http://www.strumentidiinternet.com/app/dictionary/it?camp_id=4609&gclid=CMLarOeaha8CFcjO3wodST4D4g

lunedì 26 marzo 2012

L' «occhio clinico»


Cortese dott. Raso, un amico mi ha segnalato il suo prezioso blog per il buon uso della lingua italiana. Inutile dirle che l’ho subito messo tra i preferiti per averlo sempre “a portata di mano”. Le scrivo per una curiosità. Perché si dice che una persona ha l’ “occhio clinico” per dire che è particolarmente esperta in un determinato settore? La ringrazio anticipatamente e le porgo cordiali saluti.
Giampiero T.
Verona
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Gentile Giampiero, l’argomento è stato ampiamente trattato su questo portale. Clicchi su:
http://faustoraso.blogspot.it/2010/07/l-occhio-clinico.html

domenica 25 marzo 2012

L'«apostolicone»


Tra i vocaboli relegati nella soffitta della lingua ci piacerebbe fosse rispolverato l’ «apostolicone»: un unguento cosí chiamato perché composto di dodici sostanze.
http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=apostolicone&searchfor=apostolicone&searching=true

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Mettere uno sulle roste…

…vale a dire metterlo alla berlina. Anche questo modo di dire è poco conosciuto derivando da un vocabolo raramente adoperato, la rosta, appunto. Il termine, intanto, proviene dal longobardo “hrausta” (frasca): sorta di ventaglio fatto di frasche o anche di cartoncino, a forma di quadrilatero, che si adoperava agli inizi del secolo scorso. Quando veniva azionato metteva in evidenza delle figure, molto spesso burlesche, o poesie satiriche che erano disegnate o scritte sulle due ‘facce’ da pittori e letterati dell’epoca che mettevano, cosí, alla berlina vizi e cattive usanze. Metaforicamente, quindi, si mettono sulle roste le persone da “satireggiare” per i loro vizi e i cattivi comportamenti.

sabato 24 marzo 2012

La «filematologia»


Navigando in rete ci siamo imbattuti in un termine che, sebbene non attestato nei dizionari, riteniamo particolarmente interessante: la filematologia. Si clicchi su: http://it.wikipedia.org/wiki/Filematologia  


Si veda anche questo articolo molto interessante:    http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/scienze/bacio-chimica/bacio-virus/bacio-virus.html



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Friúli, non Fríuli

Abbiamo sempre denunciato la “pochezza linguistica” di taluni mezzibusti televisivi ai quali viene affidata la conduzione dei telegiornali, pagati con i soldi dei teleutenti i quali, appunto perché pagano, hanno il sacrosanto diritto di pretendere un’informazione… corretta, sotto il profilo linguistico, intendiamo. La faziosità è sempre in agguato, e in questa sede non c’interessa. C’interessa, dicevamo, la correttezza linguistica, nella fattispecie la corretta accentazione delle parole. Molto spesso, per non dire sempre, i giornalisti radiotelevisivi pronunciano il nome della regione friulana, Friúli, con l’accento sulla “i” invece che sulla “u”. La pronuncia corretta è, dunque, quella piana (accento sulla “u”) perché si deve rispettare l’origine latina del nome, che risale al «Forum Iulii», l’antica denominazione dell’odierna Cividale. I mezzibusti televisivi che continuano, imperterriti, a pronunciare il nome della regione con l’accentazione sdrucciola, ossia con l’accento sulla “i”, dimostrano, quindi, di non conoscere né la geografia né – cosa ancor piú grave – la lingua italiana. Che qualche cosí detto scrittore di grido abbia usato e usi tuttora la pronuncia sdrucciola non giustifica affatto la ritrazione dell’accento, che si deve considerare, “a tutti gli effetti di legge linguistica”, assolutamente arbitraria. Come abbiamo sostenuto – e sosteniamo – non sempre gli scrittori sono anche valenti… linguisti.

http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=57974&r=995

venerdì 23 marzo 2012

Apparsa o pubblicata?



Qualche osservazione sull’uso non ortodosso – a nostro modesto avviso – di due verbi: apparire e proferire. Si leggono spesso, sulla stampa, frasi del tipo «la lettera apparsa il 25 del mese scorso è stata attribuita a Tizio; l’autore è, invece, Caio. Ci scusiamo con l’interessato e con i lettori». Le apparizioni, ci sia consentito, sono una caratteristica degli ectoplasmi: una lettera si pubblica, non appare. Apparire significa, infatti, ‘manifestarsi’ e una lettera – dicevamo – non si manifesta, si pubblica. Neanche una persona viva e vegeta ‘appare’, bensí ‘compare’: all’improvviso è comparso Giovanni. E che dire di ‘profferire’ in luogo di ‘proferire’? In alcuni sacri testi si legge che il predetto verbo si può scrivere con una o due “f” (proferire e profferire), una specie di verbo sovrabbondante. Le cose non stanno affatto cosí: cambiando di grafia cambia anche di significato. Con una sola “f” (proferire) sta per ‘dire’, ‘pronunciare’, ‘esclamare’ e simili: Francesco non proferí parola. Con due (profferire) vale ‘offrire’, ‘regalare’, ‘mettersi a disposizione’: Marcello gli profferí il suo aiuto (si mise, cioè, a sua disposizione per aiutarlo). E per finire si deroga ‘a’, non ‘da’. È comunissimo leggere o sentire che «Carlo ha derogato da una legge». No, correttamente, Carlo ha derogato ‘a’ una legge. Si può adoperare anche, transitivamente e raramente, nell’accezione di ‘trasgredire’, ‘violare’: tutti i presenti hanno derogato le istruzioni ricevute. Voi, amici amatori della lingua, se volete ben figurare, non derogate ‘a’ queste norme linguistiche.



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A proposito di derogare, abbiamo ‘scovato’ il sostantivo corrispondente (non attestato nei vocabolari): deroganza. Si veda questo collegamento: https://www.google.it/search?tbm=bks&tbo=1&hl=it&q=%22deroganza%22&btnG=    

giovedì 22 marzo 2012

La pagina e la pagella


Non ricordiamo, francamente, se l’argomento di cui parliamo sia già stato affrontato, nel caso ci scusiamo per la ‘ripetizione’. Abbiamo sempre sostenuto, da questo portale, l’importanza della ‘scienza etimologica’ ed abbiamo esecrato il fatto che questa ‘scienza’ non sia tenuta nella massima considerazione: la scuola – per quanto ne sappiamo – la ritiene, nei migliori dei casi, la cenerentola della grammatica. Non deve essere cosí, amici. Questa scienza ci fa scoprire delle cose… sorprendenti. Ci fa scoprire, per esempio, che la pagina in rete, che state leggendo in questo momento, ci porta al mondo rurale. La pagina (quella cartacea soprattutto) non è altro, infatti, che il latino “pagina(m)”, dal verbo “pangere” (piantare, conficcare). I nostri antenati Romani chiamavano “pagina” una pianta, quella delle viti in particolare. Questo stesso nome fu dato, in seguito, a un “insieme di righi di scrittura” e, per estensione, al foglio di carta che li conteneva. Perché? Il motivo è piú semplice di quanto si possa credere: a coloro che erano abituati ai lavori agricoli il foglio scritto appariva simile a un… campo con tanti filari. Da pagina abbiamo la ‘pagella’, cioè una piccola pagina dove sono riportati i voti ottenuti dagli studenti in ogni materia. C’è ancora qualcuno che sostiene la ‘barbosità’ dell’etimologia?

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Da “Domande e risposte” del Treccani in linea:

Si può mettere l’accento sulla voce del verbo “sapere”, 3a persona singolare, presente indicativo? Ho visto in un compito di italiano già corretto la seguente frase senza sottolineatura d’errore: “mia madre sà anche farmi divertire”.

Non si può. Qualche monosillabo che rischierebbe di confondersi con omografi (cioè parole scritte uguali) porta l’accento: ché ‘perché’, dà (3a persona singolare, presente indicativo del verbo dare), è voce verbale, là (avverbio di luogo), lì (avverbio di luogo), né (congiunzione), sé (pronome accentato: lui fa tutto da sé), sì (avverbio: non dire sempre di sì), tè (bevanda).

Le voci verbali sta, fa (difficile che si confonda con la nota musicale omografa…), va (3a persona singolare, presente indicativo dei rispettivi verbi) non vogliono l’accento. Né lo vogliono la prima persona singolare del presente indicativo do, sto e il toscaneggiante fo ‘faccio’.

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Dissentiamo sul fatto che non si possa mettere l’accento sulla prima persona del presente indicativo del verbo dare. La grammatica non lo vieta. Si può mettere altresí sulla seconda persona e sulla terza plurale. Quindi: do o dò; dai o dài; danno o dànno.
A questo proposito segnaliamo un sito in cui sono elencate le "regole fantasma" (regole fasulle sulla lingua italiana):











mercoledì 21 marzo 2012

Parlare francese come una vacca spagnola




Cortese dr Raso, sarebbe interessante conoscere il motivo per cui si dice “parlare francese come una vacca spagnola”, cioè parlarlo malissimo.

Grazie e cordialità
Antonio F.
Caltanissetta

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Gentile Antonio, le faccio ‘rispondere’ dal linguista Enzo La Stella.

Il curioso detto transalpino “parler le français comme un Basque espagnol”, ossia malissimo, diventa ancora piú curioso nella nostra traduzione ad orecchio “parlare francese come una vacca spagnola”, efficace dimostrazione che il francese possono parlarlo male… anche gli Italiani. In realtà, quello che noi traduciamo “vacca” è il nome etnico dei Baschi, popolazione non indoeuropea che abita alcune province della Spagna e della Francia, ma che in genere parla piuttosto male le lingue dei due Paesi che la ospitano, dato che è attaccatissima alla propria identità e alla parlata dei padri. Comunque, se un Basco di San Sebastian o di Bilbao non ha molti problemi a dominare il castigliano, la cosa si complica se le circostanze lo obbligano ad arrabattarsi in francese: è proprio quello che la locuzione citata desidera sottolineare.

martedì 20 marzo 2012

Perché parliamo "itangliano"?


Dal Prof. Marco Grosso, moderatore del fòro “Cruscate”, riceviamo e volentieri pubblichiamo.





L’articolo di Maria Luisa Altieri Biagi apparso sulla Nazione del 25 agosto 2006, Cultura & Società, pag. 31, offre uno spunto per approfondire la questione dell’itangliano. Come ben mette in rilievo l’illustre Accademica della Crusca, l’influsso d’una lingua sull’altra può essere fecondo, se non si traduce in becero scimmiottamento, come quando s’adottano termini inutili, detti tecnicamente «prestiti di lusso», cioè parole che hanno già un equivalente nostrano (vedi leader). Ma può anche rappresentare una debolezza di pensiero e di cultura se il forestierismo superfluo scalza dall’uso comune la parola italiana già deputata a esprimerne il significato, e se non si procede a un vaglio per sceverare l’indispensabile dal disutile.

Giustamente osserva la professoressa Altieri Biagi che non si possono eliminare certe parole, perché ormai provviste di derivati (stressare, stressante, stressato): concordo. Ma se non bisogna esagerare nella caccia ai forestierismi, non si deve neanche accondiscendere allo snaturamento morfologico e fonetico della nostra lingua. Certe parole straniere intraducibili vanno adattate, come si fa da secoli e come s’è smesso di fare solo in tempi recentissimi. Stress italiano non sarà mai; ma stresse sí. Perché? Perché per essere italiana, una parola deve per forza (eccezion fatta per certi nomi propri, sigle,
onomatopee, articoli e preposizioni) terminare in vocale. E come s’aggiungono suffissi verbali, aggettivali e avverbiali alla radice straniera, cosí andrebbe fatto anche per i sostantivi: non spot ma spotto, non film ma filme, non sport, ma sporte, come lucidissimamente consigliava il grande Arrigo Castellani, anch’egli Accademico della Crusca. In Ispagna si fa cosí: fútbol (football), estándar (standard), bumerán (boomerang), estrés (stress), hercio (hertz), deporte (sport), ecc.

L’adattamento morfologico e fonetico è un fenomeno sempre esistito in tutte le lingue e grazie al quale esse hanno arricchito il proprio lessico senza scompaginare le proprie inconfondibili strutture. Chi sospetterebbe che dietro albicocca si cela l’arabo al-barquq, che noia viene dal provenzale enoja e ricco dal longobardo rihhi? E cosí migliaia di parole comunissime di cui non si può percepire l’origine straniera perché sono formalmente italiane. Se esse non si fossero rivestite d’un manto linguistico italiano e le adoperassimo oggi nella loro «sacrosanta veste alloglotta» (come si fa ora con le parole inglesi), quella che parleremmo oggi sarebbe una lingua creolizzata, priva d’una sua identità e, di conseguenza, non piú lingua di cultura. Con l’imperante anglolalia dei nostri tempi, ci avviamo precisamente verso una progressiva creolizzazione della nostra lingua.

Mi si dirà che adattare, per esempio, spot in spotto o bunker in búnchero non è granché di moda e fa ridere. Vero. Ma le mode vanno e vengono, e si possono mutare (basterebbe rendere avvertiti i cittadini, che spesso non sanno, di come stanno le cose); e la stranezza iniziale che può muovere al sorriso dipende unicamente dall’abitudine, tant’è che nessuno si mette a ridere quando ordina al ristorante una bistecca (che sarebbe un beef-steak).

Tutto è sempre questione d’abitudine; se in televisione cominciassero a dire (e nella stampa a scrivere) sporte, bumerango, ginsi, ecc., nel giro di poche settimane parrebbe a tutti la cosa piú naturale del mondo.
La professoressa Altieri Biagi cita giustamente Leopardi. Egli diceva bensí che non si può rinunciare a un forestierismo quand’esso è portatore di concetti nuovi che non hanno una precisa equivalenza italiana; ma diceva anche che tali xenismi vanno adattati (e prima del Recanatese lo disse il Machiavelli):

...perocché noi veggiamo sotto gli occhi , che sebben forestiere di origine, elle [= voci e maniere] stanno in quelle scritture come native del nostro suolo, ed hanno un abito tale che non si distinguono dalle italiane native di fatto, e vi riescono come proprie della lingua, e cosí sono italiane di potenza, come l’altre lo sono di fatto, onde il renderle italiane di fatto non dipende che da chi voglia o sappia usarle; e per esperienza veggiamo che quegli scrittori, trasportandole nell’italiano, le hanno benissimo potute rendere, e le hanno effettivamente rese, italiane di fatto, come lo erano in potenza, e come lo sono l’altre italiane natie. Or questo medesimo è quello che nello studio delle lingue altrui dee fare in noi, in luogo dell’esperienza, l’ingegno e il giudizio nostro; cioè mostrarci, non per prova, come fanno gli scrittori nostri classici, ma per discernimento e forza di penetrazione, e finezza e giustezza di sentimento, benché sprovveduto di prova pratica, che tali e tali vocaboli e modi sono italianissimi per potenza, onde a noi sta il renderli tali di fatto, sieno o non sieno ancora stati resi tali dall’uso, o da parlatore, o da scrittore veruno; ché ciò a’ soli pedanti dee far differenza, e soli essi ponno disdire o riprendere che tali voci e forme (greche, latine, spagnuole, francesi, o anche tedesche ed arabe ed indiane d’origine, di nascita e di fatto) italianissime per potenza, si rendano italiane di fatto, senza l’esempio di scrittori d’autorità (Zibaldone, 20 ottobre 1823.)

Naturalmente non tutti i forestierismi sono adattabili (perché non «italiani per potenza», cioè che non presentano compatibilità). In casi simili si deve ricorrere o alla tecnicizzazione d’un termine italiano già esistente (si pensi a ascolto in luogo di audience), o a una traduzione letterale o calco (grattacielo da skyscraper), o a una neoformazione (regista per metteur en scène, coniazione di Bruno Migliorini).

Volendo, è possibile restare al passo coi tempi e col mondo moderno senza per questo rinunciare alle strutture della lingua nazionale. Volendo. Ma da dove origina dunque questo «morbus anglicus» onnipervadente, e quali «rimedi» sono proponibili?

1. Anzitutto da una scarsa o nulla conoscenza della lingua inglese. Sapendo che mouse significa topo, il parlante è preparato alla traduzione e la fa spontaneamente (tutte le lingue neolatine l’hanno tradotto: francese la souris, spagnolo el ratón, portoghese o rato, rumeno soricel). Ma sovente, appunto, non si conosce il significato della parola, quasi sempre banalissimo, e la voce straniera viene presa per quello che non è: una parola misteriosa e affascinante. Occorre quindi per prima cosa studiare di piú e meglio l’inglese (e anche l’italiano).

2. C’è inoltre la mancanza, in Italia, d’un vero e proprio sentimento di unità nazionale e una sorta di svalutazione o disconoscimento del patrimonio linguistico e culturale a favore della «cultura di plastica» americana; si avverte antiquato quel che è italiano e moderno quel che è inglese. È un problema di distorta percezione, al quale la scuola potrebbe e dovrebbe por rimedio, inculcando fin dalle elementari il senso del rispetto per i valori rappresentati da lingua e cultura italiana, inestimabili tesori che vanno preservati dal decadimento e dall’oblio.

3. Infine, urgerebbe la pubblicazione, da parte dell’Accademia della Crusca, d’una lista ufficiale di traducenti e adattamenti italiani, alla quale potrebbero ricorrere i giornalisti e chiunque sia desideroso di parlare in buon italiano. I nostri vocabolari, infatti, di frequente non aiutano chi cerca un’equivalenza, perché si limitano a registrare l’uso, il piú delle volte senza suggerire nulla. E cosí chi deve scrivere e non ha o i mezzi o il coraggio d’avvalersi d’un adattamento o d’una neoformazione non avallati dal dizionario è costretto a ripiegare sul termine straniero.

Nel nostro fòro Cruscate, io e gli altri utenti abbiamo pubblicato una lista, che non ha ovviamente nulla di prescrittivo, per tentare d’ovviare all’imperversante malparlare odierno, e cerchiamo di divulgarne l’esistenza, specie presso i mèdia. È uscita l’8 aprile 2006, sulla stessa Nazione, una nostra intervista, pubblicata in versione integrale in questo medesimo bloggo (sic!), con la risposta di Francesco Sabatini, presidente dell’Accademia della Crusca e autore, tra l’altro, con Vittorio Coletti, d’uno dei migliori dizionari moderni della lingua italiana (Dizionario italiano Sabatini-Coletti, noto anche con la sigla DISC). Secondo le lettere piovute in Redazione, sembrerebbe che molti Italiani siano a favore della nostra iniziativa.

Piú sopra ho detto che bisognerebbe rendere avvertiti i cittadini di quello che sta accadendo. È importante infatti che la gente si renda conto che esistono alternative agli anglicismi e che l’afflusso massiccio di questi nel parlar quotidiano non è affatto salutare, né segno di modernità, ma solo di povertà e di snobbismo (lo scrivo con due b, com’è piú italiano, e come scriveva il Castellani). Ma questo non si può fare girando tutta l’Italia e sonando i campanelli di tutte le porte; si può fare, invece, per televisione, con un programma d’una decina di minuti al giorno, magari dopo il telegiornale. E lancio qui un appello alla Rai: perché non considerare la mia proposta, in collaborazione con l’Accademia della Crusca? Ebbe successo la trasmissione di anni fa «Parola mia», condotta da Luciano Rispoli con la partecipazione del linguista Gian Luigi Beccaria; avrebbe successo anche questa, che si potrebbe chiamare, per esempio, come il titolo della nostra lista, «Italiano, ci manchi!». Si può parlare di lingua in maniera semplice, accattivante e divertente.

Nessun purismo, dunque, alla Fanfani-Arlia, che rifiutavano in blocco tutti i forestierismi, adattati o no. Ma solo ― com’è giusto ― un’oculata setacciatura e un felice connubio tra l’italiano e le altre lingue, che hanno il sacrosanto diritto di continuare la loro evoluzione accanto all’inglese senza esserne snaturate, ma appropriandoselo e assimilandolo nel rispetto dell’individualità e delle caratteristiche imprescindibili di ciascun idioma.

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Siti Internet di riferimento:


lunedì 19 marzo 2012

Il dizionario...

Siamo rimasti stupiti nel constatare che molti studenti (e no) non sanno consultare un dizionario (o vocabolario, anche se, a rigore, i due termini non sono proprio sinonimi): si fermano alla prima definizione. Il dizionario, invece, va letto con molta attenzione per non incorrere nella scelta di un termine non appropriato alla bisogna. Scrive, infatti, il linguista Leo Pestelli: «Il dizionario è un libro prezioso da gustare nelle minime pieghe; sono soldi spesi bene. Importantissime quelle abbreviazioni che vi stanno in parentesi, accanto alla voce elencata: sost. agg. pron. avv. tr. intr. rifl.  e  cosí via, che molti saltano per la furia di andare a vedere la definizione, onde poi tanti errori come quello di barattare categoria  ai verbi e usarli attivi quando son neutri e viceversa, o non distinguere i casi in cui lo stesso verbo è transitivo e intransitivo. Cosí  ‘piombare’, transitivo soltanto nel senso di ‘ricoprire’ o rafforzare con piombo, è preso da taluni attivamente anche nel senso di ‘cadere’ a piombo, d’improvviso e violentemente: quel lutto ‘lo piombò’ nella miseria. Il dizionario vuol essere letto con la lente e in pace e il piú adagio possibile, senza fretta di arrivare in fondo. Tanto si sa come finisce. Finisce col sostantivo ‘zuzzurullone’, persona grande e grossa, vogliosa solamente di ruzzare, di girare, di non far nulla: un ‘zuzzurullone’ (quell’ “un”, però, ci lascia un po’ perplessi, ndr) di marito».  E a proposito del verbo “piombare”, leggiamo dal dizionario Gabrielli in rete: «Chiudere, saldare, sigillare con piombo: p. un tubo, un pacco postale Piombare i cristalli di una vetrata, unirli con strisce di piombo Piombare un dente, otturarne la carie con piombo o leghe metalliche e mastici speciali». Bene. Non ci sembra appropriato il verbo “otturare” riferito alla carie. La carie è una malattia che corrode lasciando un… buco. Si ottura il buco, quindi, non la carie. O siamo in errore?


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Levare il vino dai fiaschi

Quest’espressione viene adoperata, ovviamente in senso figurato, quando si invita una persona a fare chiarezza su una questione rimasta in sospeso o a “prendere di petto” e definitivamente una situazione in modo da concluderla. Il modo di dire fa riferimento al vino perché la qualità si verifica solo al momento in cui si toglie dal fiasco e si consuma.

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S. Giuseppe: auguri a tutti i Giuseppi che ci onorano della loro attenzione.

domenica 18 marzo 2012

Avere la ciabatta del Machiavelli



Chi possiede questa ciabatta, naturalmente in senso figurato? Chi è molto astuto e abile in tutto, come se avesse, per l’appunto, la ciabatta appartenuta a Niccolò Machiavelli capace di trasmetterne le doti agli altri.

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Facciamo un po’ di chiarezza sull’uso corretto di due tempi del modo indicativo dei verbi: passato remoto e trapassato prossimo. Molto spesso, dunque, questi due tempi ci fanno impazzire: quando adoperare l’uno e quando l’altro? È noto a tutti (o dovrebbe essere noto) che il trapassato prossimo si usa per indicare un fatto accaduto prima di un altro pure accaduto. Per questo c’è il passato remoto; per l’avvenimento anteriore, piú che passato, c’è il trapassato prossimo. Conviene rammentare queste “cosucce” soprattutto quando, nel raccontare un avvenimento, si è indotti a richiamarne un altro che l’ha preceduto. Vediamo, per maggior chiarezza, qualche esempio in cui i due tempi non sono adoperati correttamente. In parentesi il tempo corretto. «Il povero alpinista fu rinvenuto in fondo al burrone, vicino al fedele cane che con i suoi gemiti richiamò (aveva richiamato) l’attenzione dei soccorritori»; «Gli anziani coniugi tornarono volentieri nella città lagunare che videro (avevano visto), per la prima volta, durante la luna di miele»; «Il barbone portò subito al commissariato, anziché tenerlo per sé, il portafoglio che trovò (aveva trovato) nel parco».

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Segnaliamo un sito interessante: Una frase per ogni occasione e altro…

http://www.frasi.net/


sabato 17 marzo 2012

Avverbi male adoperati

Spulciando qua e là, tra le varie pubblicazioni, abbiamo notato che molto spesso gli avverbi vengono adoperati malamente. Prima di addentrarci nel particolare riteniamo sia il caso di ricordare la funzione dell’avverbio (dal latino ad verbum, 'presso il verbo') che – come recitano le grammatiche – è quella parte invariabile del discorso che, posta vicino al verbo o a un aggettivo (o a un altro avverbio, ndr) lo modifica, vale a dire vi annette un’idea secondaria di modo, di tempo, di luogo ecc. E veniamo agli avverbi usati in malo modo, o mal formati (in parentesi quelli ‘corretti’). «I due amici stavano conversando allegramente, mentre furono interrotti da un forte boato (in quel mentre; mentre è una congiunzione non può, quindi, svolgere le funzioni di avverbio)»; «Per fortuna che  (fortunatamente) all’ultimo momento rinunciarono a imbarcarsi, altrimenti…»; «Il barbone è stato dimesso dall’ospedale, mica era folle (non era mica)»; «Delle volte (a volte) ci pentiamo amaramente di fare del bene»; «Avete fatto il vostro dovere di cittadini? Perfettamente (certamente, sí)»; «Direttore, ci faccia sapere se la nostra relazione l’ha soddisfatta o meno (o no)»; «Il vostro comportamento è stato decisamente (veramente) riprovevole». Sono solo alcuni esempi, ma se ne potrebbero fare a iosa, con il rischio, però, di tediarvi.

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Segnaliamo un sito per apprendere le regole dell’ortoepia (dizione corretta):

http://www.attori.com/dizione/Diz00.htm

venerdì 16 marzo 2012

L'analisi logica: quanto è utile?

Riceviamo e volentieri pubblichiamo


di Lidia Romani

L’analisi logica è un “esercizio che trova la sua ragion d’essere nell’individuazione e scomposizione della struttura della frase in soggetto, predicato e complementi e che continua ad essere proposta nella sua versione tradizionale accompagnata spesso da definizioni confuse e discutibili, nonché da liste infinite e discordanti di complementi …” (F. Sabatini – “La Crusca per voi").

Indubbiamente districarsi nella giungla dei complementi è un compito arduo non soltanto – come si potrebbe pensare – per gli studenti, ma talvolta anche per gli insegnanti, sia per la complessità della materia (complessità intesa soprattutto come numero dei complementi esistenti nella nostra lingua) sia per la varietà di interpretazioni (spesso diverse o contrastanti tra loro) offerte dagli specialisti e dai testi che trattano questo tema.

Sono molti gli studenti che si chiedono quale sia l’utilità dell’analisi logica.

“A che cosa mi servirà quando entrerò nel mondo del lavoro?” è la classica domanda dei giovani, non soltanto per quanto riguarda l’analisi logica, ma per ogni approfondimento culturale in cui non ravvisino la possibile “ricaduta” (per usare il gergo scolastico), il vantaggio che potrebbero ricavarne in futuro, a meno che non abbiano già definito il percorso di studi e i loro piani professionali.

Sicuramente l’analisi logica facilita lo studio del Latino e del Greco, ma anche delle lingue straniere. Sicuramente costituisce uno strumento di ricerca, di approfondimento e di riflessione linguistica da non sottovalutare, soprattutto in una società sempre più tentata dall’approssimazione e dalla superficialità, nel campo culturale come in ogni campo.

Poniamoci, tuttavia, anche noi la domanda dell’utilità dell’analisi logica ma, soprattutto, chiediamoci se e in quale misura la quantità (e i conseguenti dubbi interpretativi) dei complementi riconosciuti dalla nostra grammatica possa frenare l’interesse degli studenti verso una materia che, a prescindere dalle intrinseche difficoltà e dai possibili tranelli, resta tra le più affascinanti per gli appassionati della lingua.

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Passare in razza

Chi passa in razza? Colui (o colei) che riceve una carica puramente onorifica ma che in realtà comporta le “dimissioni” da incarichi importanti espletati fino a quel momento. Il modo di dire si rifà al trattamento riservato agli animali da competizione, soprattutto cavalli e cani: alla fine della “carriera” sportiva vengono adibiti esclusivamente alla riproduzione.






giovedì 15 marzo 2012

L'antefatto e l'antibagno

Cortese dott. Raso,

torno alla carica con altri quesiti. Sarebbe interessante conoscere il motivo per cui si dice “antefatto” e “antibagno”. Il prefisso non è lo stesso? Perché ora “ante-“ e ora “anti-“? Grazie come sempre per la sua non comune disponibilità.
Cordialmente
Ludovico L.
Arezzo
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Gentile Ludovico, ho trattato l’argomento sul “Cannocchiale”. Clicchi sul collegamento.


http://faustoraso.ilcannocchiale.it/2008/11/19/ce_ante_e_ante.html    

mercoledì 14 marzo 2012

Amenità (linguistiche)

Dopo le superfluità, alcune “amenità linguistiche” (non veri e propri errori orto-sintattico-grammaticali, però…) che possono “pregiudicare” i nostri scritti. Prestiamo, dunque, la massima attenzione nello scrivere, se non vogliamo rasentare la “ridicolaggine linguistica”. Pilucchiamo, dunque, qua e là, tra le varie pubblicazioni. In corsivo marcato “le amenità”. «Il numero dei morti e dei dispersi si fa salire provvisoriamente a centocinquanta»; «La badante, spaventata dal rumore dei ladri, per richiamare l’attenzione dei vicini ha cominciato a  pestare le mani contro la parete»; «Gli sciatori non possono scendere in pista se non  indossano gli appositi scarponi»; «Il terremoto ha talmente rovinato l’appartamento da potersi calcolare inabitabile»; «L’accampamento è stato distrutto da un grandioso incendio»; «La donna ha, poi, ringraziato gli invitati per i regali di cui l’hanno voluta colmare»; «Il poveretto, investito da un automobilista pirata, è rimasto sdraiato (se la godeva, dunque, quel poveretto?) sull’asfalto in attesa dei soccorsi»; «Tutte le persone presenti se la ridevano sotto i baffi» (anche le donne hanno i baffi?). Continuiamo? No, meglio di no. Non vogliamo riempirci il viso di rughe per le risate.

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Fare come quello che portò il cacio al padrone

Questo modo di dire, di uso raro e probabilmente poco conosciuto, si riferisce a una persona che elargisce regali a destra e a manca ma, in seguito, se li riprende in altra forma. L’espressione è tratta da un racconto di origine popolare. Un contadino andò a far visita al padrone del podere portandogli in dono una forma di formaggio. Apprezzando molto il pensiero, l’uomo invitò il contadino a fare uno spuntino con il suo stesso formaggio; quest’ultimo, con mille ringraziamenti e salamelecchi, se lo finí tutto.



martedì 13 marzo 2012

Complemento: predicativo o di modo? (3)

Ancora sul complemento predicativo del soggetto e sul complemento di modo o maniera. Leggiamo dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:


1. Ines Desideri scrive:

Gentile Professor Arcangeli,

innanzitutto desidero ringraziarLa per la ricca disamina offerta in risposta ai miei quesiti del 9 marzo.

Concordo pienamente con Lei (e non può essere altrimenti) sul fatto che gli ausiliari “essere” e “avere” possono acquisire, in alcuni casi, un valore autonomo e che i verbi “restare” e “andare” possono assumere la funzione predicativa in determinati contesti comunicativi, come avviene anche con altri verbi copulativi.

Non credo che mi si possa attribuire una visione manichea della lingua per averLe chiesto alcune delucidazioni in merito alla funzione di “zitte zitte” e sono certa che Lei – proprio perché contrario a ogni forma di manicheismo – accetterà di buon grado il mio punto di vista. Accettarlo non significa necessariamente condividerlo: questa condizione mi sembra non soltanto ovvia ma necessaria in ogni scambio di opinioni che sia realmente basato sul rispetto reciproco.

Premesso che bisogna analizzare di volta in volta la specificità dei contesti comunicativi (come da Lei giustamente sottolineato), sono dell’avviso che nel contesto specifico “Le donne se ne andarono zitte zitte” gli aggettivi “zitte zitte” costituiscano un complemento di modo. L’esempio, infatti, è ben diverso dal “Tu vai, io resto” da Lei citato, nel quale si deduce una situazione comunicativa in cui è sottinteso, perché noto sia al mittente sia al destinatario del messaggio (chiaramente informale), il luogo e/o il tempo in cui le azioni di “andare” e di “restare” si svolgono.

Se dicessi “Le donne se ne andarono” e se Manzoni avesse scritto “Presero per i campi pensando ognuno a’ casi suoi” le due frasi conserverebbero la loro compiutezza, data la presenza di verbi che assumono la funzione predicativa, che non necessita dunque di un complemento predicativo, come avviene invece per i copulativi.

Ciò che Lei esclude, se ho ben capito, è che un aggettivo possa svolgere anche la funzione modale. Invece a mio avviso, e proprio perché ogni situazione va analizzata di volta in volta secondo la specificità del contesto, l’ aggettivo “zitte” può essere un complemento di modo, perché in questo caso arricchisce la frase, ma non è indispensabile allo scopo della sua compiutezza, come avverrebbe invece in “Restarono zitte zitte”.

La ringrazio per la pazienza e la disponibilità.

Cordialmente

Ines Desideri

2. linguista scrive:

Gentile Ines,

grazie per il supplemento di riflessione. Il problema non è l’aggettivo in sé e per sé, ovviamente, ma la percezione dei fatti grammaticali nel contesto d’uso; per questo aspetto la sua percezione del “discreto” e del “continuo” è diversa dalla mia (e va bene così). Naturalmente non attribuivo certo a lei la responsabilità di una visione “manichea” della lingua.

Massimo Arcangeli

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A nostro modesto avviso il linguista continua a mantenere la sua posizione menando il can per l’aia. Non ha risposto, infatti, alla gentile lettrice, che domandava se “zitte zitte” sia da considerare un complemento di modo o maniera. Ma tant’è. Probabilmente abbiamo una visione “manichea” della lingua o le fonti che consultiamo “curiosamente” ci confondono le idee.

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Dalla stessa rubrica:

1. Tiziana scrive:


Gent.mo Dr. Bianco,


credo di essere stata indotta all’errore da quanto letto nella Grande grammatica italiana di consultazione ( Il mulino) . Mi aiuta a capire ?


Cito testualmente : Con valore di avverbio di azione possiamo avere l’aggettivo semplice in posizione postverbale, accordato col soggetto in genere e numero. Es. Giovanna ribattè pronta (prontamente).Io lo avevo “tradotto” come possibilità di considerare “pronta” non come predicativo del soggetto ma complemento avverbiale di modo (come per prontamente).


grazie mille


2. linguista scrive:


Siamo certamente di fronte a un tipico caso di aggettivo con valore avverbiale: l’aggettivo continua infatti a essere grammaticalmente tale (può essere accordato col soggetto: “ribatté pronto”, “ribatté pronta”, “ribatterono pronti”, “ribatterono pronte”), ma riveste le mansioni di un avverbio di modo (”prontamente”). C’è però valore avverbiale e valore avverbiale. Se dico “Marco parla chiaro” dico anche “Lucia parla chiaro” e “Marco e Lucia parlano chiaro”. Qui l’aggettivo è dunque indeclinabile; la funzione avverbiale ha “cannibalizzato” l’appartenenza originaria della forma alla categoria degli aggettivi. Soltanto in questo caso la trasformazione dell’aggettivo in avverbio appare perfetta; nell’altro caso no. “Ribattere pronto”, peraltro, rientra in quegli esempi nei quali il legame tra il verbo e la forma a cui appare saldato è molto solido: tanto solido da consentire di parlare di verbo usato copulativamente e perciò, a maggior ragione, di predicativo del soggetto.


Massimo Arcangeli

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Anche questa risposta, un po' 'ermetica', ci lascia molto molto perplessi perché – sempre a nostro modesto avviso – non ci può essere “valore avverbiale e valore avverbiale”. Il “valore avverbiale” è uno solo.
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Indirizzo rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica: http://linguista.blogautore.repubblica.it/
 






lunedì 12 marzo 2012

«Superfluità ridicole»

Quando scriviamo, anche una lettera a un amico, per esempio, rileggiamo con attenzione quanto scritto perché possiamo infarcire il tutto di “superfluità ridicole”, a scapito della bellezza e della scorrevolezza del testo. Abbiamo scritto un’ovvietà? Può darsi. Piluccando però, qua e là, in varie pubblicazioni non ci sembra, poi, una ovvietà. Vediamo, dunque. In corsivo marcato la superfluità: «Sono stato accolto con molto calore tanto che il mese prossimo ritornerò di nuovo a trovarvi»;  «Abbiamo visitato il mercato rionale: nel cesto della lattuga c’erano dei piccoli vermiciattoli»;  «Dopo l’incidente, i soccorritori lo hanno trasportato al pronto soccorso: aveva una forte emorragia di sangue»; «Durante la parata militare davanti a tutti precedeva l’alfiere con la bandiera; «Le persone sequestrate – si apprende da fonti sicure – stanno ottimamente bene; «Il protagonista ha mostrato di possedere una speciale singolarità d’interpretazione»; «Il ragazzo deve impegnarsi con costante assiduità»; «La colazione sarà al sacco: affettato, frutta e due o tre pagnottelle di pane». Potremmo continuare, ma non vogliamo tediarvi oltre misura. È bene, per tanto - come dicevamo -  rileggere i nostri testi perché mentre scriviamo non sempre ci accorgiamo delle castronerie che inavvertitamente "buttiamo giú".




domenica 11 marzo 2012

Alleppare e allappare

Abbiamo notato, con stupore, che molte persone credono che il verbo “alleppare” sia una variante di “allappare”. No, sono due verbi distinti con significati… distinti. “Allappare”, come recitano i vocabolari, nella fattispecie il Devoto-Oli, significa «Produrre sui denti o nella bocca quell'effetto astringente che hanno le sostanze acide o di sapore aspro; anche assoluto: un frutto che allappa». “Alleppare”, invece, desueto, significa «rubare con destrezza». Per conoscere l’origine diamo la “parola” a Ottorino Pianigiani, Niccolò Tommaseo, Policarpo Petrocchi e altri. Si clicchi sui collegamenti in calce.









sabato 10 marzo 2012

Fare una gabriella


Gentile signor Raso,

mi sono imbattuto, per caso, nel suo sito che, visti i “contenuti”, ho messo subito tra i preferiti perché lo visiterò frequentemente. Ho visto che risponde anche ai quesiti che le vengono posti, ne approfitto quindi. Tempo fa, mi è capitato sotto gli occhi un vecchio giornale dove ho letto: “Fantastica la gabriella di quel ragazzo”. Cosa significa? Ho consultato tutti i vocabolari in mio possesso (anche quelli online) senza trovare traccia della “gabriella”. Le sarei grato se mi illuminasse. Grazie.

Giovanni P.
Pesaro
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Cortese Giovanni, la gabriella (a parte il nome proprio femminile) è un termine in disuso, per questo non è attestato nei vocabolari e significa “capriola”, “piroetta” (o “piroletta”) e si richiama al movimento saltellante delle capre. Chi fa la gabriella, dunque, fa una piroetta, una capriola. Ottorino Pianigiani, nel suo dizionario, lo spiega magistralmente. Clicchi su:  http://www.etimo.it/?term=gabriella&find=Cerca 



venerdì 9 marzo 2012

Complemento: predicativo o di modo? (2)

A proposito dei complementi predicativo del soggetto e di modo o maniera, riportiamo dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:


1. Ines Desideri scrive:

Gentile Professor Arcangeli,

mi permetto di inserirmi nell’interessante discussione tra Lei e Fausto Raso (in merito a “zitte zitte” 5-6/3) per avere delle delucidazioni.

Se, anziché “Se ne andarono zitte zitte …”, avessimo la frase “Se ne andarono in silenzio/silenziosamente …” potremmo considerare “in silenzio/silenziosamente” un complemento di modo o maniera?

Propongo una frase manzoniana:

“Presero per i campi, zitti zitti, pensando ognuno a’ casi suoi”.

Come analizzare “zitti zitti” in questo caso?

La ringrazio per l’attenzione e Le porgo cordiali saluti

Ines Desideri

1. linguista scrive:

Procediamo con ordine, prendendola un po’ alla lontana. Consideriamo un verbo come “restare”, che sappiamo tutti essere “intrinsecamente” copulativo. Se dico “Tu vai, io resto”, però, “restare” svolge funzione predicativa, perché esaurisce in sé il suo significato. Insomma, generalizzando, “restare” è un verbo grammaticalmente copulativo, ma può anche rivestire (come nell’esempio che ho fatto) le mansioni di un predicativo. Ma riflettiamo anche su un caso analogo. “Essere” e “avere” sono i più classici verbi ausiliari dell’italiano (”è”, naturalmente, è anche la copula per antonomasia: “Gianni è ingegnere”; “la giornata è bella”), vengono cioè utilizzati tipicamente al fine di esprimere il passato nei tempi composti e nei verbi impersonali (o usati impersonalmente) e nella costruzione passiva: “sono andato”; “non ho mangiato”; “mi sono addormentato”; “abbiamo provveduto”; “è stata derubata”. Non sempre “essere” e “avere” svolgono tuttavia una funzione ausiliaria: in “Dio è” e “ho finalmente avuto il posto” il loro significato è “pieno” (rispettivamente: ‘esistere’ e ‘ottenere’) e il loro ruolo autonomo. Bisogna considerare i vari fenomeni linguistici nel loro concreto contesto di utilizzazione, distinguendo con intelligenza caso da caso. Quando qualcuno mi pone una domanda su una questione che investe l’italiano sto bene attento a NON mettere preliminarmente mano a nessuna grammatica dell’uso corrente; non perché non mi fidi, ovviamente, ma perché bisogna prima ragionare (anche su quel che ci sembra scontato) e poi, se si vuole, ci si può confrontare con quel che hanno scritto altri. La mia irritazione monta soprattutto quando qualcuno, senza avere le competenze che può avere un linguista di professione, pontifica dopo aver consultato più o meno cursoriamente le sue fonti. Se quel qualcuno scrive, senza mettere in luce sfumature o eccezioni, che “andare” è un verbo predicativo, o snocciola una serie di esempi generici senza spiegare, e per di più in forma di osservazione al lavoro di altri, io mi sento in dovere di intervenire.

Se dico “andarsene in silenzio” o “andarsene silenziosamente” sono di fronte a un caso un po’ diverso rispetto ad “andarsene zitto zitto”, perché la doppia possibilità “in silenzio”/”silenziosamente” rende più solido il valore di complemento di modo della soluzione “in silenzio” (”silenziosamente” è proprio un avvebio di modo), laddove “zitto zitto” non ha dalla sua un equivalente avverbiale (*”zittamente” non è forma attualmente accettabile); nella mia percezione, perciò, “andarsene zitto zitto” lega l’”aggiunta” (”zitto zitto”) al verbo più di quanto avvenga con “in silenzio” o “silenziosamente”. Dobbiamo sottrarci, in definitiva, a una visione manichea della nostra lingua (di tutte le lingue), e abituarci a osservare i vari fenomeni nella continuità di piccoli passaggi dall’una all’altra delle classificazioni possibili. Ai nostri fini è fondamentale la distinzione tra le categorie grammaticali in sé e per sé e le varie funzioni che una determinata forma può assumere al di là della sua appartenenza all’una o all’altra di quelle categorie.

Massimo Arcangeli

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Saremo ottusi, ma continuiamo a non capire la risposta del linguista; anzi, ci sembra che non abbia risposto. Avevamo inviato, inoltre, quest’intervento che, “democraticamente”, è stato cassato:


Fausto Raso scrive:


Il tuo commento è in attesa di moderazione


Il Prof. Arcangeli mi perdonerà se insisto sull’argomento. “Se ne andarono zitte zitte” contiene un complemento di modo, non un complemento predicativo del soggetto, come sostenuto dal dr Bianco e dallo stesso Prof. Arcangeli, il quale scrive: «… Che quell’aggettivo o quel nome, in un caso come “Mario è arrivato preparato”, risponda alla domanda “come (è arrivato Mario)?”, e svolga perciò la funzione di un complemento di modo, non c’è comunque alcuno dubbio». Se nella frase “Mario è arrivato preparato” si può rispondere alla domanda “come?” e si ha, quindi, un complemento di modo, non si capisce perché nella proposizione “se ne andarono zitte zitte” alla quale si può rispondere alla stessa domanda (”come se ne andarono”?) si ha, invece, un complemento predicativo del soggetto. Proprio non riesco a capire il perché.






giovedì 8 marzo 2012

Vai a scuola? No, ozio...


Probabilmente i ragazzi che frequentano le classi ginnasiali e gli stessi docenti non sanno che – stando all’etimologia – dovrebbero entrare nelle aule scolastiche in costume adamitico. Sí, proprio cosí. Scherzi dell’etimologia. Ma andiamo con ordine cominciando col vedere l’origine della scuola (anche se l’argomento, ci sembra, è stato trattato sul “Cannocchiale”). Sembrerà inverosimile, ma la scuola, che per moltissimi giovani (e per noi ai nostri tempi) è associata al lavoro, alla pena, alle ansie, alle notti in bianco e, talvolta, a qualche benevolo e paterno scapaccione, quando è ‘nata’ voleva dire esattamente il contrario: riposo, ozio e, perché no?, ‘pacchia’. Scuola, infatti, viene dal greco ‘scholé’ che significa, per l’appunto, ‘riposo’, ‘ozio’. Ciò si spiega con il fatto che nell’antichità (Grecia e Roma) i soli che si dedicassero agli studi erano gli uomini i quali, quando erano liberi da ‘impegni bellici’ o dai lavori dei campi, ne approfittavano per dedicarsi alla cura della mente, dello spirito. Quei pochi momenti liberi che potevano riservare alla cura dell’ ‘animo’, della mente – tra una guerra e l’altra – erano considerati un piacevole riposo, uno svago  anche (e, forse, soprattutto) perché  per la mentalità dell’epoca coloro che si dedicavano allo studio anziché alle armi o al lavoro dei campi, non… lavoravano, oziavano. La scuola, dunque, era un… ozio. E veniamo al ginnasio, che nell’accezione moderna – come recitano i vocabolari – è un “corso di studi classici in due anni al quale possono accedere i ragazzi in possesso della licenza media; biennio del liceo classico”. Anche il ginnasio, nell’antichità, quando è ‘nato’ aveva tutt’altro significato: presso i Romani e i Greci era un luogo pubblico dove i giovani si addestravano alla lotta, alla corsa e al lancio del disco; era, insomma, una palestra. L’origine della parola è anch’essa greca, ‘gymnàsion’ (‘luogo per esercizi ginnici’), da ‘gymnòs’ (nudo); e ciò perché i giovanotti che frequentavano il ginnasio, vale a dire la palestra, erano in abiti assolutamente adamitici.  Come si è giunti all’ ‘evoluzione’ della parola? Cioè a ‘luogo di studi classici’? È presto detto. Molto spesso il ginnasio era circondato di portici con sedili dove - col tempo - maestri e filosofi sedevano per provvedere – dopo il pugilato, i salti, le corse -  all’ ‘addestramento spirituale’ di quei baldi giovani. Il nome finí, quindi, con l’indicare anche la ‘palestra della mente’.

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Otto marzo: tanti cordiali auguri alle nostre amiche blogghiste.

mercoledì 7 marzo 2012

Complemento predicativo o di modo?


Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:


1. Tiziana scrive:

Buongiorno,

avrei bisogno di alcuni chiarimenti.

1) quando faccio l’analisi logica di una frase il cui soggetto è costituito da una proposizione soggettiva, considero soggetto l’intera proposizione compresi eventuali complementi? Es. Non mi sembra vero “che tu ti sia allontanato da me”

2) Nella frase :

se ne andarono, zitte zitte, dall’ufficio

“zitte zitte” è una locuzione avverbiale di modo?

Grazie mille per il prezioso lavoro

2. linguista scrive:

1) Nel suo esempio, il soggetto della proposizione non mi sembra vero è la proposizione soggettiva che tu ti sia allontanato da me, nella sua interezza (per tale ragione si parla di proposizione soggettiva).

In quest’ultima, a sua volta, si possono individuare: un soggetto (tu; soggetto della proposizione soggettiva, non dell’intera frase!); un predicato verbale ( ti sia allontanato); un complemento di moto da luogo (da me).

2) Zitte zitte è un complemento predicativo del soggetto.

Francesco Bianco

1. Fausto Raso scrive:

Nella frase «Se ne andarono zitte zitte dall’ufficio» non siamo – a mio avviso – in presenza di un complemento predicativo del soggetto (come sostiene il dr Bianco) ma dinanzi a un complemento di modo o maniera. Il complemento predicativo del soggetto si ha con i verbi copulativi, con i verbi appellativi passivi (essere chiamato), con i verbi estimativi passivi (essere creduto) e con i verbi elettivi passivi (essere eletto). Il verbo ‘andare’ non rientra in una di queste categorie.


2. linguista scrive:

Gentile Raso,

l’italiano, come tantissime altre lingue, possiede verbi copulativi e verbi che, pur essendo di norma predicativi (e cioè di senso compiuto), possono essere usati copulativamente. In espressioni come “andare fallito” o “andare lungo” il verbo “andare” svolge, per l’appunto, mansioni copulative. “Andarsene zitto zitto” (o “andarsene mogio mogio”) sarà forse un esempio più “debole”, ma non è poi molto diverso da esempi come “rimanere zitto” o “restare in silenzio” (aggiungo, nel caso non lo sappia, che “restare” e “rimanere” sono due dei più classici verbi copulativi).

Spero di essere stato chiaro nella spiegazione. Comunque, se ha bisogno di qualche ulteriore delucidazione sull’argomento, torni a scriverci; le saremo senz’altro d’aiuto per rispolverare qualche altra nozioncina grammaticale.

Massimo Arcangeli


1. Fausto Raso scrive:

Gentile Prof. Arcangeli,


mi permetto di farle notare che in un precedente quesito simile ha dato una risposta diversa.


1. Luca scrive:

Il complemento di modo può essere costituito da un aggettivo? Nelle grammatiche ho notato che non lo menzionano. Es: “Sono arrivato stanco” oppure ” Mario viene da me interessato”. Grazie


2. Luca scrive:

Una frase che ha il participio passato con valore di aggettivo, come in questo es: ” Mario è arrivato preparato” oppure ” Giuseppe viene da me interessato”, da luogo ad un complemento di modo? Grazie


3. linguista scrive:

In casi come questi la tradizione grammaticale parlerebbe di verbo “copulativo” e complemento predicativo (o, meno correttamente, di nome del predicato), che sarebbe l’aggettivo o il nome che completa il significato del verbo interessato. Che quell’aggettivo o quel nome, in un caso come “Mario è arrivato preparato”, risponda alla domanda “come (è arrivato Mario)?”, e svolga perciò la funzione di un complemento di modo, non c’è comunque alcuno dubbio.


Massimo Arcangeli

2. linguista scrive:

Mi pare ovvio. Non vorrà negare che la “funzione” del componente nei casi in oggetto sia quella di un complemento di modo. Ribadisco: la “funzione”. Sa quando si parla di aggettivo con funzione di avverbio? Quando si dice, per esempio, “andare spedito” invece di “andare speditamente”? In casi come questi l’aggettivo (”spedito”) continua a essere “grammaticalmente” un aggettivo ma “funzionalmente” è un avverbio.

Massimo Arcangeli

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Abbiamo l’impressione che il Prof. Arcangeli sia stato preda di un attimo di “smarrimento linguistico”.
Se nella frase "Mario è arrivato preparato" si può rispondere alla domanda "come?" e si ha, quindi, un complemento di modo, non si capisce perché nella proposizione "se ne andarono zitte zitte" alla quale si può rispondere alla stessa domanda ("come se ne andarono"?) si ha, invece, un complemento predicativo del soggetto.




martedì 6 marzo 2012

La sinergia

Se c’è un termine, oggi, di cui si fa abuso, e molto spesso a sproposito, questo è la “sinergia”. Molti lo adoperano perché è “di moda” ma non sanno esattamente cosa sia. Chiediamo lumi, dunque, a Cesare Marchi.

«Si parla molto di sinergie. Riferendosi specialmente agli editori di giornali che cercano, mediante le sinergie, di abbassare i costi. La parola viene dal greco “syn”, insieme, ed “ergon”, opera, azione; vale a dire collaborazione. Grazie alle sinergie, la stessa pagina può comparire su testate differenti. Ma contro questa novità tecnologica i giornalisti han dimostrato “allergia”, che deriva pure da “ergon” e vuol dire reazione contraria. Temono infatti che lo scambio di pagine preconfezionate riduca i posti di lavoro. Questa del resto, è una preoccupazione comune a tutti i lavoratori, compresi gli addetti alla “metallurgia”, altro vocabolo derivante da “ergon”, cioè lavorazione dei metalli. Lavoro duro, per il quale occorre molta “energia” (il solito “ergon”). Tuttavia il lavoro va inteso come strumento di liberazione dell’uomo, non come una condanna a vita. Insomma non deve essere un “ergastolo”, dal greco “ergastérion” (…) casa di lavoro per schiavi e condannati ai lavori forzati. Quando un malato ha bisogno d’un intervento operatorio, si affida al chirurgo, medico che opera con le mani, dal greco “chéir”, mano, ed “ergon”, opera».

Per tornare alla “sinergia”, questo termine è stato mutuato dalla scienza medica in quanto è “un fenomeno per cui un dato effetto terapeutico si ottiene mescolando due o piú medicamenti che interagiscono provocando sull’organismo un’azione piú efficace e immediata”.



lunedì 5 marzo 2012

Sarcofagi o sarcofaghi?



Molto spesso, nello scrivere,  non avendo a portata di mano un vocabolario siamo assaliti da dubbi sulla formazione del plurale dei nomi sdruccioli in “-go”: antropologhi o antropologi? Sarcofaghi o  sarcofagi? Astrologhi o astrologi? È anche vero, però, che non tutti i vocabolari concordano creando confusione. Come regolarsi, allora? Si può ricorrere a una regola empirica valida per certi sostantivi sdruccioli (-òlogo, -àlogo, -òfago): plurale in –gi  se questi sostantivi indicano persone; in –ghi se si riferiscono a cose. Avremo, quindi, antropologi, astrologi, sociologi perché si riferiscono a persone; sarcofaghi, dialoghi, prologhi perché indicano cose.

domenica 4 marzo 2012

I composti di "3" si accentano?



Riportiamo una discussione avviata nel fòro “Cruscate” riguardo alla grafia corretta degli aggettivi numerali composti con “tre”.

(http://www.achyra.org/)

Una scoperta «allucinante»

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Ho scoperto che il DOP marca con meno bene i numerali composti con il 'tre' non accentati (ventitre, cinquantatre ecc.). Ho sempre saputo che i numeri composti con il tre devono essere accentati; omettere l'accento è un errore gravissimo. Come mai il DOP, invece, è permissivo?


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Andrea Russo

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Probabilmente perché il composto è talmente trasparente che nessuno leggerebbe /ven'titre/ invece di /venti'tre/. Però son d'accordo con lei: avrebbero dovuto mettere «non ventitre».


Ferdinand Bardamu

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Concordo con Andrea sul motivo (assurdo) per cui qualcuno omette l'accento; tuttavia le parole ossitone in italiano richiedono il segnaccento. Anche perché, ad esempio, è perfettamente analizzabile, cionnonostante perche è una grafia ovviamente inaccettabile.


PersOnLine

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Non voglio sconvolgere ulteriormente il nostro Raso, ma la stessa cosa è anche per viceré, i composti di -blu e chissà quali altri composti da monosillabi.


Fausto Raso
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Gentile PersOnLine, ho dovuto prendere un cardiotonico...


Sarebbe il caso che i responsabili del DOP rivedessero attentamente le varie voci messe a lemma. Quel "meno bene" induce in errore gli studenti che consultano il dizionario, rischiando di prendere un'insufficienza nei loro elaborati se vengono vagliati da docenti degni di questo nome.


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PersOnLine

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Fausto Raso ha scritto:



Sarebbe il caso che i responsabili del DOP rivedessero attentamente le varie voci messe a lemma. Quel "meno bene" induce in errore gli studenti che consultano il dizionario, rischiando di prendere un'insufficienza nei loro elaborati se vengono vagliati da docenti degni di questo nome.



Bisognerebbe avere una copia cartacea del DOP ante revisione e capire se anche prima era così permissivo.


Fausto Raso

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PersOnLine ha scritto:

Bisognerebbe avere una copia cartacea del DOP ante revisione e capire se anche prima era così permissivo.



Purtroppo sí. Anche prima era cosí permissivo. Ho il dizionario cartaceo edito nel 1981.


Le sorprese, però, non sono finite. Al lemma viepiú scrive 'meglio che vieppiú'. L'unica grafia corretta, invece, è con una sola 'p'. 'Vie' è un avverbio (oggi in disuso) che serve per rafforzare un comparativo e non dà luogo a rafforzamento sintattico. Il Treccani ha l'accortezza, per lo meno, di scrivere 'meno corretto vieppiú': viepiù (o vie più; meno corretto vieppiù) avv., letter. – Ancor più, sempre più: L’astuto lupo vie più si rinselva (Poliziano). V. anche vie. In lingua, però, un termine o è corretto o non lo è; non può essere corretto 'a metà'. Il Gabrielli, nel suo Dizionario Linguistico Moderno, avverte: «Attenti a non scrivere "vieppiù" (...), perché dopo "vie" non è sottintesa una congiunzione "e" che giustificherebbe il raddoppiamento». Il Gabrielli in rete, ritoccato, lo smentisce. Ma tant'è.


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Ecco il DOP: http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=8088&r=1429