sabato 30 aprile 2011

«Essere fuori di Bologna»



Gentilissimo dott. Raso,
questa mattina mi sono imbattuto, leggendo un libro di qualche anno fa, in un’espressione mai sentita: «Non devi dare ascolto a ciò che dice Giovanni, perché è fuori di Bologna». Dal contesto la città di Bologna non c’entrava affatto. Le sarei grato se volesse spiegarmi il significato della locuzione. Grazie e complimenti vivissimi per la sua opera in difesa della lingua italiana.
Francesco V.
Grosseto
----------------
Cortese Francesco, la locuzione – desueta per la verità – sta a significare che quella persona, nel caso specifico Giovanni, non è degna di fede perché ritenuta un essere sciocco. Cosa c’entra, dunque, Bologna con la “sciocchezza” di una persona? È presto detto. Come si sa, il capoluogo emiliano è conosciuto come “Bologna la dotta”, la “mater studiorum”, e un tempo da ogni parte d’Italia e dall’estero moltissimi giovani vi si recavano per frequentare la sua università dalla quale uscivano “dottissimi” tanto che le sue monete, anche quelle coniate sotto lo Stato Pontificio, recavano il motto «Bonomia docet». “Essere fuori di Bologna”, quindi, con il trascorrere del tempo ha acquisito il significato figurato di “esser fuori della casa del sapere, della conoscenza” e, pian piano, attraverso una degradazione semantica (‘cambiamento di significato’) ha assunto l’accezione di “essere uno sciocco”, perché fuori della città del sapere, appunto.

venerdì 29 aprile 2011

«Cercasi» locuzioni «congiuntivali»



Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
Michele scrive:
Nella frase “Per quanto bello possa essere questo appartamento non lo affitterò.” quale tipo di subordinata esprime per quanto?
linguista scrive:
Si tratta di una proposizione concessiva. Provi pure a riformularla sostituendo la locuzione congiuntivale ‘per quanto’ con ’sebbene’, quantunque’ o altre congiunzioni che introducono più comunemente una concessiva: si accorgerà che il significato non cambia.
Anna Colia
-----
Anna scrive:
in una gara d’appalto per l’affidamento di un servizio tra la documentazione di gara era richiesto: elenco degli impianti di stoccaggio e/o smaltimento finale…
L’Ente ribadisce che erano richiesti tutti e due, l’azienda invece ritiene che la frase debba intendersi uno o l’altro
chi ha ragione?
linguista scrive:
La locuzione congiuntivale ‘e/o’ indica contemporaneamente associazione e alternativa. Quindi, in questo caso, le due tipologie di impianti da elencare sono richieste contemporaneamente sia come alternative sia come compresenti, ed entrambe le possibilità sono valide allo stesso modo.
Generalmente il primo termine è quello la cui presenza è posta come base (spesso perché ha i requisiti più vicini a quelli richiesti o è più facile da reperire, per es. “cercasi ragazze e/o ragazzi”).
Anna Colia
-----------------------------
Ci spiace, ma dobbiamo rilevare alcune “inesattezze” della linguista, “inesattezze” che potrebbero indurre in errore gli amici blogghisti, amanti del bel parlare e del bello scrivere. In linguistica non esistono le locuzioni “congiuntivali” ma quelle “congiuntive”. “Congiuntivale” è un aggettivo che – come si può leggere nei vocabolari – significa «relativo alla congiuntiva dell’occhio: mucosa, fornice, sacco congiuntivale». Quanto a «cercasi ragazze e/o ragazzi», non siamo in presenza di un “si impersonale” come potrebbe essere, per esempio, «parlasi spagnolo», ma davanti a un “si passivante” il cui verbo, in questo caso, deve essere plurale. L’espressione corretta è, quindi, «cercansi (o si cercano) ragazze e/o ragazzi». In questo caso, infatti, il soggetto c’è, e sono le ragazze o i ragazzi che “subiscono” l’azione di essere cercati.

giovedì 28 aprile 2011

La «locandina»






Gentile dott. Raso,
mi sono imbattuto, per caso, nel suo meraviglioso sito: l'ho messo subito nei preferiti. Le scrivo per una curiosità linguistica, che i vocabolari che ho consultato non hanno saputo soddisfare. Perché i manifesti che "annunciano" gli spettacoli teatrali o cinematografici si chiamano «locandine»? La locandina non è una piccola locanda? Cosa ha a che vedere con i manifesti pubblicitari? La ringrazio anticipatamente, se crederà opportuno rispondermi.
Cordialmente
Salvatore T.
Enna
--------------
Cortese Salvatore, perché non dovrei risponderle? La ringrazio, anzi, per avermi "preferito". E vengo alla sua curiosità. La locandina - come avrà letto nei vocabolari - è un « piccolo cartello affisso nei luoghi e sui mezzi pubblici per reclamizzare il programma di uno spettacolo»; nelle edicole, «manifesto che preannuncia alcune notizie di un giornale». Nulla che vedere, quindi, con una "piccola locanda". È una voce di origine romanesca (ed entrata di diritto nella lingua nazionale) derivata dagli avvisi che un tempo si affiggevano nei portoni delle case con la scritta latina «est locanda» (è da affittare), vale a dire c'è un appartamento che si può prendere in affitto; si diceva anche "si appigiona".

martedì 26 aprile 2011

«Assassare la mecenatessa»




Abbiamo notato che alcuni grandi scrittori (e riproponiamo la domanda: chi stabilisce la “grandezza”?) sono soliti fare il femminile di mecenate: mecenatessa. La cosa ci sconcerta: come è possibile che costoro non sappiano che mecenate, da nome maschile proprio, è diventato nome comune atto a indicare il protettore degli artisti? Mecenate, insomma, resta nella forma maschile anche se si riferisce a una donna. Chi non sa, infatti, che Mecenate era un importante consigliere di Augusto e influente protettore di letterati e artisti? Il nome, quindi – come dicevamo – da proprio è divenuto comune ed è passato a indicare, per antonomasia, ogni munifico protettore e benefattore di poeti e artisti in genere, ma maschile era e maschile deve rimanere. In compenso si può fare il plurale: i mecenati. Personalmente preferiamo la forma singolare invariata: i mecenate. È lo stesso caso, cortesi amici amanti della lingua, di “sosia” e “soprano”: riferiti a una donna devono rimanere nella forma maschile. Il primo perché, come mecenate, era un nome proprio (in questo caso di uno schiavo), il secondo perché “nacque” solo per essere riferito a un uomo. Alcuni grandi scrittori trasgrediscono la “legge” e dicono “la soprano”, voi, se volete parlare e scrivere bene, fate vostre le parole dantesche: non ti curar di lor…


* * *

È un vero peccato che i vocabolari abbiano relegato nella soffitta della lingua il verbo “assassare”, cioè “scagliar sassi contro qualcuno”, ‘immortalato’, fino a qualche secolo, fa in molti libri. I lessicografi ci ripensino. Assassare non è piú pratico di “tirar sassi”, “scagliare sassi” e simili?

domenica 24 aprile 2011

BUONA PASQUA


E cosí siamo giunti, “inavvertitamente”, al giorno di Pasqua. Nell’augurare ai gentili blogghisti, che ci seguono con affetto, una Pasqua serena, crediamo di far loro cosa gradita parlando – per sommi capi - delle uova pasquali attraverso i secoli.
Le uova, dunque, come simbolo pasquale hanno - potremmo dire - origini che si perdono nella notte dei tempi avendo tradizioni molto antiche, legate soprattutto alla primavera, come stagione feconda.
L'uovo rappresenta la Pasqua nel cosmo intero: dipinto, intagliato, di cioccolato, di terracotta e di carta pesta. Le uova colorate o dorate hanno un'origine molto più antica rispetto a quelle “tradizionali”di cioccolato.
Le uova, probabilmente per la loro forma e sostanza molto particolare, hanno sempre rivestito un ruolo unico, quello del simbolo della vita in sé, ma anche del mistero, quasi della sacralità. Nell’iconografia cristiana l’uovo, infatti, è il simbolo della Resurrezione: il guscio rappresenta il sepolcro dal quale esce un essere vivente. Per i pagani, invece, l’uovo è il simbolo della fertilità: l’eterno ritorno alla vita. I persiani, i cinesi e i greci se li scambiavano come dono per le feste di primavera. Per i filosofi egiziani l’uovo era il fulcro dei quattro elementi. Per gli israeliti era un dono da dare agli amici e lo regalavano anche a chi festeggiava un compleanno.
I nostri antenati latini usavano dire: ”Omne vivum ex ovo”. Ma andiamo avanti. Dipingere e decorare le uova durante il periodo pasquale risale a quest’ultimo periodo: regalarne uno colorato era sinonimo di auguri e buoni auspici. Durante il periodo medievale era tradizione regalare le uova a tutti i servitori.
In Germania le uova venivano donate ai bambini assieme ad altri regali. In certi Paesi, come l’Inghilterra, ogni anno a Pasqua i bambini vanno a cercare in giardino, fra l'erba e i cespugli, le uova che il dispettoso coniglietto pasquale ha colorato e poi nascosto. Anche in alcune regioni della Francia si nascondono le uova colorate nei giardini e si racconta ai bambini che sono state depositate dalle campane che la notte del Venerdì Santo hanno volato fino a Roma per prenderle ed è per questo motivo che nessuno le sente suonare durante la notte della Passione.
Nei Paesi nordici è tradizione anche fare dei giochi con le uova sode: si debbono far rotolare da un dosso senza romperne il guscio oppure tenere un uovo lesso in mano e cercare di rompere quello tenuto dall’avversario. Ma come nasce la tradizione pasquale di colorare e decorare le uova?
Questa usanza nasce, con molta probabilità, dalla leggenda secondo la quale dopo che Maria Maddalena aveva trovato il sepolcro di Gesù vuoto, corse dagli apostoli annunciando loro la straordinaria notizia.
Pietro, incredulo, disse: “Crederò a quello che dici solo se le uova contenute in quel cestino diverranno rosse”.
E le uova, di colpo, si colorarono di un rosso intenso! Ogni civiltà ha creato un proprio modo di decorare le uova. A volte si usano quelle sode, colorate con colori vegetali e alimentari se si intende mangiarle. Oppure si svuotano facendo un forellino con un ago a ogni estremità dell'uovo, così facendo si usa soltanto il guscio.
In Grecia si era soliti scambiarsi uova rosse in onore e memoria del sangue versato da Gesú Cristo. Ancora. In Germania e in Austria si regalano uova verdi il Giovedi Santo.
In Armenia, invece, si usa dipingere le uova con immagini di Gesù, della Madonna o con scene tratte dalla Passione.
Nei paesi dell'Europa orientale si utilizzano, per decorare le uova, motivi stilizzati geometrici bicolori: blu e bianco, rosso e bianco...
Una tecnica molto antica – tramandata di generazione in generazione - per decorare le uova consiste nell’ “incollare” piccole piante e foglie intorno alle uova e nel bollirle con colori vegetali. Staccando le piante, sul guscio rimangono delle impronte più chiare.

sabato 23 aprile 2011

Lo zeugma




Non vorremmo peccare di presunzione se diciamo che nessuno dei nostri “venticinque lettori” ha mai sentito parlare dello “zeugma”, anche se molto spesso, nel parlare o nello scrivere lo ‘mette in pratica’. Perché? Perché – come sosteniamo – molti sacri testi grammaticali snobbano questa figura retorica. Lo zeugma è, infatti, una figura retorica che riunisce in dipendenza di un solo verbo piú termini dei quali alcuni richiederebbero un verbo proprio. Prende il nome dalla voce greca “zèugos” (giógo) e significa “aggiogamento”, “legame” e in alcuni casi è un vero e proprio errore di grammatica. Dante, il grande Dante, “cade” volutamente in questo errore quando riunisce alla dipendenza di un unico verbo due termini, ognuno dei quali vorrebbe altra dipendenza, là dove dice: «parlare e lagrimar vedrai insieme» (Inferno, XXXIII 9). Ora, secondo la logica grammaticale, avrebbe dovuto dire “vedrai lagrimare e udrai parlare”. Le lacrime, infatti, “si vedono” e il parlare “si ode”. Ma il Divino – come si sa – lo ha fatto per snellire la frase, e in lui lo zeugma non è un errore ma una forma di eleganza stilistica. E a proposito di zeugma, ma forse è meglio dire di strafalcioni, ricordate – se volete parlare e scrivere correttamente – di non dare mai il medesimo complemento a due verbi diversi, ognuno dei quali deve reggere un complemento distinto. Non dite o scrivete, per esempio, «obbedite e rispettate i vostri genitori». Obbedire, solitamente, è un verbo adoperato intransitivamente, non può reggere, quindi, il complemento oggetto come lo ha, invece, il verbo rispettare. Non “zeugmate”, la sola forma corretta è: obbedite ‘ai’ vostri genitori e rispettateli. Il primo verbo, infatti, richiede il complemento di termine, il secondo il complemento oggetto. Non rispettando questa “legge grammaticale” si cade in un errore che potremmo definire “zeugma alla rovescia”. Cosí pure è errato dire, anche se si sente spesso, «era simpatico e ricercato da tutti». Si dirà, ‘piú’ correttamente, «era simpatico a tutti e perciò ricercato». Un altro errore frequentissimo, e che si riscontra nei massinforma (giornali e radiotelevisioni), è quello di dare alla medesima parola (verbo) due complementi formati in modo diverso come, per esempio, «all’imputato piaceva vedere la televisione e di leggere». Sentite, oltretutto, la stonatura? L’unica forma corretta ed elegante è: «all’imputato piaceva la televisione e la lettura». Attenzione, però, e non ci stancheremo mai di ripeterlo: in grammatica non esistono regole assolute. Molte volte ciò che è un errore, se commesso per mera ignoranza, può, al contrario, essere una forma di eleganza stilistica quando sia fatto ad arte da uno scrittore per ricavarne un certo effetto. Resta da stabilire una sola cosa: quali sono gli scrittori che si possono permettere di “far testo”? Quelli che un tempo dal salotto di Maurizio Costanzo pubblicizzavano il loro primo (e spesso unico) libro tra un consiglio per gli acquisti e l’altro, cioè tra una lavatrice e un dentifricio?

giovedì 21 aprile 2011

«Essere in linea»


Ciò che stiamo per scrivere - lo diciamo subito - non "è in linea" con i vocabolari e con quanto sostengono i linguisti (tutti?) perché vogliamo parlare proprio della "linea" che ricorre in alcune locuzioni di uso comume ma da evitare, in buona lingua italiana, perché sono francesismi in cui la "linea" c'entra come i cavoli a merenda. Il significato primario di "linea" è - come recitano i vocabolari - «Segno grafico, generalmente sottile, tracciato da un punto a un altro su una superficie»: tirare, tracciare una linea su un foglio. Solo con questo significato - a nostro modo di vedere - il termine è corretto. Sono da evitare, dicevamo, alcune espressioni francesizzanti come "in linea di principio"; "essere in linea", "in linea teorica", "su tutta la linea", "linea di condotta" e simili. Che cosa c'entra, infatti, la linea in queste locuzioni? Chi ama il bel parlare e il bello scrivere dirà, correttamente: "in teoria", "per principio", "interamente", "del tutto" ed espressioni simili.

mercoledì 20 aprile 2011

Due vocaboli «burocratici»



Due vocaboli che in uno scritto sorvegliato sono da evitare, se impiegati impropriamente: “ordinativo” e “ordine”. Il primo, in buona lingua italiana, è solo aggettivo: numeri ordinativi; principi ordinativi e simili. È invalso l’uso – a nostro modo di vedere errato – di adoperarlo in funzione di sostantivo nel significato di “commissione”, “mandato”, “ordinazione” e simili: ordinativo di merci; ordinativo di pagamento. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere dirà, correttamente: mandato di pagamento, commissione di merci e simili. Lascerà l’uso “errato” al gergo burocratico, anche se i vocabolari non sono dalla nostra parte. Quanto al secondo vocabolo (ordine) non è adoperato correttamente – sempre a nostro avviso – nella locuzione “in ordine a”: ‘in ordine alla sua proposta, le comunico che…’. Diremo: “in relazione a”; “quanto a”; “rispetto a” e simili: ‘quanto alla sua (in relazione alla; rispetto alla) proposta, le comunico che…’. Pedanteria? Giudicate voi, amici amatori della buona lingua.

martedì 19 aprile 2011

«Orchestrali»? No, professori d'orchestra











Perché professori d’orchestra e non “orchestrali”? Perché - anche se siamo “sbugiardati” dai vocabolari e da qualche linguista “d’assalto” – il termine è solo aggettivo e tale deve rimanere. È errato dire, per esempio, il pubblico in sala ha contestato gli orchestrali; si dirà, correttamente: il pubblico ha contestato i professori d’orchestra. Orchestrale, ripetiamo, è solo aggettivo: corpo orchestrale, musica orchestrale. I sostantivi che fanno alla bisogna, secondo i casi, sono, insomma: sonatore, maestro, professore d’orchestra. I vocabolari, come detto… ma tant’è.

domenica 17 aprile 2011

Se guadagni... pascoli


A proposito dell'uso corretto del verbo "guadagnare" - di cui abbiamo parlato ieri - riproponiamo un nostro vecchio articolo - per coloro che seguono da poco tempo le nostre modeste noterelle - sul significato "nascosto" del verbo. Chi sa se i nostri cortesi amici sanno che quando guadagnano… pascolano. E ci spieghiamo. Tutti conoscono il significato “scoperto”del verbo guadagnare; se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana e leggere: “Trarre profitto, utile, da un lavoro, a riconoscimento dei propri meriti e fatiche”. Questo, per l’appunto, il significato che abbiamo definito scoperto. E quello “coperto”, cioè nascosto dentro la parola? Per… scoprirlo è necessario studiare l’origine del verbo – che non è schiettamente italiana – la quale ci porta al franco-gotico “waidanjan” (pascolare), derivato di “waida”, pascolo, appunto. Per i nostri progenitori, infatti, la maggior fonte di ricchezza, di… guadagno, era data dall’allevamento di bestiame. Con il trascorrere del tempo il verbo – come avviene spessissimo in lingua – ha perso il significato originario (“coperto”) di pascolare per assumere quello “scoperto” di trarre lucro. Ma non finisce qui. Vi sono altre parole di uso comune – provenienti, però, dal latino – che ci riportano sempre ai… pascoli: peculio, pecunia e peculato. Tutte e tre, infatti, vengono dal latino “pecus” (armamento, gregge). Vediamo, ora, i significati “scoperti” dei tre termini. Peculio: somma di denaro accumulata con la costanza di piccoli risparmi. In origine il peculio era la quantità di beni posseduti, soprattutto in bestiame (“pecus”, pecora). Pecunia: denaro. Originariamente “ricchezza consistente in bestiame” (“pecus”, pecora, gregge). Peculato: appropriazione indebita di denaro o beni pubblici da parte di un funzionario pubblico. E sempre in tema di guadagno, di… pascolo, finiamo con il “capitale” che un tempo indicava esclusivamente il numero dei capi di bestiame bovino posseduti.

mercoledì 13 aprile 2011

«Scrupolare»








Un altro verbo non da “salvare” (perché non è attestato nei vocabolari) ma da... divulgare: " scrupolare". Il significato, ci sembra, è ovvio. Lo abbiamo “scovato” nel libro di Alfredo Ravanetti - 2008 - 252 pagine. «Un paio di balordi si accostano e le sfilano i vestiti: pensano che se non abbiamo anima tanto vale godersela e non scrupolare troppo. Il saggio sorride distante, inarrivabilmente alto nel torrione della sua indifferenza. ...».

* * *

Segnaliamo un’altra “diversità di opinioni” tra il vocabolario Gabrielli in rete, ritoccato e “ammodernato” dai redattori e il “Dizionario Linguistico Moderno” dello stesso Aldo Gabrielli. Alla voce ‘lavaggio’ il Dizionario linguistico recita: «Uno dei tanti brutti neologismi della tecnica, modellato a orecchio sul francese “lavage”; l’italiano dice soltanto ‘lavatura’». Il Gabrielli in rete, invece, mette a lemma
lavaggio. Chissà se l’insigne linguista scomparso sarebbe contento di vedere questo “brutto neologismo” immortalato nel suo vocabolario.

lunedì 11 aprile 2011

«Elegante»





Dallo “Scioglilingua” del Corriere della Sera in rete:
elegante
Secondo Lei, elegante può essere aggettivo qualificativo derivato ? A mia figlia (1a media) hanno detto così ma secondo me è sbagliato, perchè altrimenti anche buono deriva da bontà come alto da altezza. Lei cosa ne pensa?


Grazie mille
Annabi
Risposta del linguista:
De Rienzo Sabato, 09 Aprile 2011 Non credo a queste classificazioni: elegante è aggettivo qualificativo che certamente deriva da eleganza.
---------
Cortese Professore, ha ragione Annabi, “elegante” non è un aggettivo derivato da “eleganza”; semmai è il contrario. Viene dal latino “elegante(m)” (o “eligantem”), dal verbo “e-ligere” (scegliere). Riferito al vestiario significa che “sa scegliere” vestiti adatti e, per estensione accurato... elegante.

* * *


La morgue


Un gentile blogghista di Orvieto (che desidera conservare l’anonimato) ci domanda per quale motivo con il termine “morgue” si intende quel triste luogo a tutti noto: l’obitorio. “Giriamo” il quesito al mai abbastanza compianto insigne linguista Aldo Gabrielli - a nostro avviso - un “padre” della lingua. «Voce francese d’ignota origine, che oggi significa “contegno fiero”, “alterigia”. Un tempo però (secolo XVII) indicava un luogo del carcere dove i prigionieri eran raccolti per essere bene osservati e perquisiti dalle guardie prima di venire chiusi nelle celle; da questo fatto si estese il nome di “morgue” a quel luogo di Parigi dove si esponevano per il riconoscimento i cadaveri di sconosciuti. Con quest’ultimo significato la voce è molto usata anche da noi, invece di “sala mortuaria” o, meglio di “obitorio”, neologismo felicemente costruito (1936) sul latino “obitus”, ‘morte’ (...). È inutile, quindi, il brutto adattamento “morga”. Alcuni nostri malparlanti usano “morgue” nel significato di “alterigia”, “sussiego”, “superbia”, “presunzione”, “aria”, “boria”, “spocchia” e simili: “la ‘morgue’ dei potenti”; dirai “la ‘superbia’ dei potenti”».


domenica 10 aprile 2011

L'aggettivo intensificatore

Gli amici che ci seguono da tempo sanno benissimo che non perdiamo... tempo nel denunciare la pochezza della maggior parte dei “sacri testi” che si occupano della nostra lingua: gli argomenti sono trattati - per lo piú - in modo superficiale e non appagano la fame di sapere di coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere. Quante grammatiche trattano, per esempio, dell’aggettivo cosí detto intensificatore? Abbiamo piluccato qua e là nei vari testi in nostro possesso e non abbiamo trovato traccia alcuna. Siamo sicuri, per tanto, di non essere tacciati di presunzione se affermiamo che la quasi totalità dei nostri lettori - anche acculturati - non hanno mai sentito parlare di questo tipo di aggettivo anche se, inconsciamente, lo adoperano a ogni piè sospinto. Prima di addentrarci nei meandri dell’aggettivo in oggetto, rivediamo il concetto di aggettivo stesso. La definizione che danno le grammatiche è “quella parte variabile del discorso che si accompagna al nome per meglio specificarlo”. Deve il nome al tardo latino “adiectivum”, tratto da “adicere”, aggiungere, composto con “ad” (presso) e “iacere” (gettare); propriamente “gettare presso”, quindi “cosa che si aggiunge” (al nome o sostantivo). Si è soliti dividere gli aggettivi in due grandi categorie: qualificativi e determinativi. I primi indicano una qualità del nome (bello, brutto, cattivo, gaio ecc.); i secondi, invece, esprimono una determinazione di “quantità”, di “possesso”, di “numero”, di “luogo” (poco, tanto, mio, questo, quinto ecc.). Quanto alla collocazione dell’aggettivo (anteposto o posposto al nome) non esiste una “legge” specifica: dipende, insomma, dallo stile di chi scrive o parla. Qualche regola generica, tuttavia, è possibile darla e la prendiamo dalla grammatica di Trabalza-Allodoli: «In genere, l’aggettivo viene a collocarsi avanti al nome quando non vuole spiccare sopra di esso; dopo, nel caso inverso, quando infatti richiama di piú l’attenzione e specialmente se contiene il motivo dell’espressione». Una regola, insomma, come dicevamo, non esiste; la “perfetta” collocazione dell’aggettivo non fa parte della grammatica vera e propria, ma della stilistica. Bene. Alcuni aggettivi qualificativi tra i piú comuni (bello, buono, piccolo, grande, forte, discreto, onesto, basso ecc.) sono detti “intensificatori” perché possono essere impiegati oltre che per indicare una precisa qualità (qualificativi, appunto) anche, come dice lo stesso termine, per dare una particolare intensificazione al concetto o all’immagine espressi dal nome al quale vengono aggiunti (“aggettivi”). In questo caso la legge grammaticale vuole che siano collocati, di norma, prima del nome. Un bellissimo esempio di aggettivo intensificatore lo prendiamo dal Collodi: «Aveva un manto reale di circa un metro di lunghezza: eppure ne strascicava per terra almeno due ‘buoni’ terzi». Come si può ben vedere, questo “buoni” intensifica il concetto di quantità (due terzi). C’è da dire, in proposito, che molti aggettivi qualificativi, adoperati in funzione intensificatrice, divengono quasi sinonimi e la scelta dell’uno o dell’altro dipende non tanto dal significato quanto dalla loro “posizione”. Per concludere, quindi, possiamo dire che in moltissimi casi la distinzione tra funzione intensificatrice e funzione qualificativa è data dalla anteposizione/posposizione e il relativo spostamento dell’aggettivo dall’una all’altra posizione muta l’intero significato della proposizione. Alcuni esempi semplificheranno il tutto: un ‘forte’ odore (funzione intensificatrice, in quanto ‘forte’ anteposto al nome ne intensifica il concetto e vale un “odore intenso”); un odore ‘forte’ (funzione qualificativa perché, in questo caso l’aggettivo “qualifica” il sostantivo e vale un ‘odore acuto’). E sempre a proposito dell’aggettivo, ci piace terminare con una massima di Alphonse Daudet: «L’aggettivo deve essere l’amante del sostantivo e non già la moglie legittima. Tra le parole ci vogliono legami passeggeri e non un matrimonio eterno».

sabato 9 aprile 2011

«Soprusare»

Cortese dott. Raso, mi rivolgo a lei, “come ultima spiaggia”, perché non ho trovato conforto in nessun vocabolario in mio possesso, neanche tra quelli on-line. Esiste il verbo “soprusare”? Un mio amico mi ha detto che è stato “soprusato” dal suo capufficio, vale a dire che è stato vittima di un sopruso a opera del suo superiore. Sono certo che il verbo in questione è stato “coniato” dal mio amico perché, come dicevo, non è registrato in nessun vocabolario della lingua italiana. Qual è il suo “pensiero” in proposito? Il verbo esiste? Si può adoperare? Grazie anticipatamente se vorrà rispondermi.
Cordialmente
Francesco S.
Sassari
--------------
Gentile Francesco, sí, il verbo esiste - anche se snobbato dai vocabolari - e si può adoperare benissimo nel significato di “fare oggetto di sopruso”: è un verbo denominale provenendo dal sostantivo sopruso. Si trova nel Grande Dizionario dell’Uso del De Mauro e in alcune edizioni del vocabolario degli accademici della Crusca. Ma anche in tanti altri libri. Non si capisce, quindi, perché i comuni vocabolari della lingua italiana l’abbiano relegato nella soffitta.

venerdì 8 aprile 2011

«Innestare» e «innastare»

Abbiamo notato, con stupore, che molte persone, anche tra quelle la cui “cultura linguistica” è insospettabile, confondono i verbi “innestare” e “innastare” (o “inastare”), li ritengono, insomma sinonimi. Si faccia attenzione, i due verbi hanno origini e significati completamente diversi. Il primo significa “fare innesti” (innestare le viti, per esempio); il secondo vale “mettere nell’asta” (inastare la bandiera). Leggiamo dal vocabolario “Treccani” in rete:

innestare
v. tr. [lat. *insitare, der. di insĭtus, part. pass. di inserĕre «introdurre»; v. insito1 e inserire] (io innèsto, ecc.). – 1. a. In agraria, trasportare e far concrescere sopra una pianta una parte di altro vegetale, in modo da formare un solo individuo; effettuare l’innesto: i. un ciliegio gentile su un ciliegio selvatico; i. le viti. b. Per estens., trapiantare, trasportare un organo o una parte di un organismo animale vivente in un altro organismo, a scopo sperimentale o terapeutico. c. I. il vaiolo, spec. in passato, inoculare il siero antivaioloso mediante scarificazione cutanea del braccio o della gamba. 2. Congiungere insieme pezzi o parti diverse di un congegno meccanico: i. la frizione, in un motore a scoppio (contr. di disinnestare); analogam., i. una spina nella presa di corrente; con uso più generico: i. lo spazzolone su un manico. In usi fig., inserire una cosa in un’altra, un argomento in un altro, ecc.: il Boiardo ha innestato motivi del ciclo bretone nella tradizione epica carolingia. Con sign. analoghi anche intr. pron.: lo colse il fatal ferro Alla vertebra estrema, ove nel collo S’innesta il capo (V. Monti); il punto dove la strada provinciale s’innesta sulla (o nella) nazionale. ◆ Part. pass. innestato, anche come agg.: le viti innestate cominciano già a dare frutto; avere la frizione innestata, partire con la marcia innestata; in araldica, detto dello scudo partito o troncato o trinciato o tagliato che ha la linea di divisione foggiata a sporgenze e rientranze regolari in modo che i due smalti della partizione s’innestino l’uno nell’altro.

inastare (meno com. innastare)
v. tr. [der. di asta, col pref. in-1]. – Applicare all’estremità di un’asta: i. la bandiera; più com., i. la baionetta, fissarla sulla canna del fucile. ◆ Part. pass. inastato, anche come agg. (v. la voce).

giovedì 7 aprile 2011

La fronda e la foglia

Si presti attenzione alla “fronda” e alla “foglia”. Questi due vocaboli sono sinonimi solo se riferiti a un albero; no, se si parla di fiori o di erbaggi. La fronda, propriamente, è un ramo o un ramoscello con foglie: una fronda di castagno; una fronda di melo ecc. In questo significato si può usare anche semplicemente “foglia”, sempre di un albero, però: la foglia del pesco. La “foglia”, invece, si può riferire tanto agli alberi quanto ai fiori: una foglia di ciclamino; una foglia di quercia. I vocabolari che abbiamo consultato non fanno distinzione alcuna. Chi ama il bel parlare e il bello scrivere prenda, invece, in considerazione la differenza semantica dei due termini.

* * *

Un interessante quesito posto a “Domande e risposte” del vocabolario Treccani in rete:


È corretto dire “per il gran urlare”?


Non è chiaro precisamente a che cosa ci si riferisca. Forse all’analisi del complemento? Se è così, ecco la risposta, si tratta di un complemento di causa: ‘a causa del gran urlare’ (urlare è qui sostantivo: l’urlare è ‘emissione, produzione di urla’). Se, come invece è più probabile, ci si riferisce alla forma tronca di grande, gran, allora qualcosa va detto sul fenomeno del troncamento (o apocope), in relazione all’aggettivo grande. Il troncamento consiste nella caduta di un elemento fonico in fine di parola, indipendentemente da come cominci quella successiva. Può essere o non essere segnalato dall’apostrofo (la situazione varia da parola a parola sottoposta a troncamento). Ci può essere troncamento di una vocale (signore - signor) o, come accade in grande, di una sillaba. Nel caso di grande, si può aggiungere, le forme tronche possono convivere con quelle piene. Insomma, si può tranquillamente scegliere di usare le prime o le seconde: c’è un grande caldo/c’è un gran caldo; Il grande sonno (titolo italiano di un film del 1946 di Howard Hawks, The Big Sleep, con Humphrey Bogart e Lauren Bacall)/ho un gran sonno, ecc. Si deve, però, concludere che, secondo l’autorevole grammatica Italiano di Luca Serianni (garzantina, cap. I, par. 78) «In ogni caso si deve evitare l’apocope sillabica davanti a vocale». Quindi, no a *gran uomo, *han amato e, appunto, *gran urlare.

mercoledì 6 aprile 2011

Connotare e avallare


Forse è il caso di ricordare agli amici blogghisti, che ieri hanno seguito la trasmissione televisiva “Ballarò”, che il presente indicativo del verbo “connotare” ha l’accentazione piana (io connòto), e che il verbo “avallare” ha una sola “v”. Perché queste precisazioni? Perché il direttore del giornale l’Unità, Concita De Gregorio, ospite della trasmissione, ha più volte ripetuto: “questo cònnota che”, “questo avvalla che”. Ha sbagliato, quindi, l’ortoepía di entrambi i verbi. Non vorremmo che qualche studente - se, eventualmente, avesse assistito alla trasmissione - “copiasse” il direttore del giornale. A proposito di giornale, abbiamo seguito, forzatamente, l’uso comune di chiamare “direttore” una donna. È un uso che non condividiamo. Perché nella scuola c’è la direttrice, mentre nei giornali - se diretti da una donna - c’è il direttore e non la direttrice? Misteri eleusini.


* * *

A proposito di “misteri eleusini”, si dice di cose che rimangono oscure; quando si ha l’impressione che di una determinata cosa non ci si capirà mai nulla. Questi “misteri” si celebravano a Eleusi ed erano famosissimi in tutta la Grecia antica. Gli iniziati dovevano giurare di conservare il segreto sul loro svolgimento, per questo motivo non si è mai saputo in cosa consistessero.

martedì 5 aprile 2011

«Sensibile»

Domenica scorsa ci siamo occupati di un verbo, scongiurare, che a nostro avviso viene, spesse volte, adoperato impropriamente. Oggi trattiamo di un aggettivo che, sempre a nostro modo di vedere, viene usato in modo improprio: sensibile. Il significato proprio dell’aggettivo è - come recitano i vocabolari - “che può essere percepito attraverso i sensi”: quel rumore è appena sensibile (cioè l’organo dell’udito, uno dei nostri sensi, lo percepisce appena). Alcuni danno all’aggettivo in oggetto - seguendo l’esempio dei francesi - l’accezione figurata di “evidente”, “notevole”, “ragguardevole”, “importante”, “grave” e simili: l’azienda ha chiuso l’anno con una “sensibile” perdita; il terremoto ha causato un “sensibile” danno all’edificio; abbiamo riscontrato un “sensibile” miglioramento delle condizioni. In tutti questi esempi l’aggettivo sensibile è adoperato impropriamente. In buona lingua diremo: rilevante perdita; notevole danno; evidente miglioramento. Lo stesso discorso per quanto attiene all’avverbio ‘sensibilmente’, adoperato molto spesso in luogo di parecchio, molto, considerevolmente, notevolmente ecc. Sappiamo di non avere il conforto di qualche linguista, ma tant’è. Dimenticavamo: ridiamo quando ci capita di leggere (o di sentire) dati sensibili.

lunedì 4 aprile 2011

«Avere il ginocchio della lavandaia»







Per la spiegazione e l’origine di questo modo di dire — per la verità non molto conosciuto — riferito a una persona che soffre di tutti i mali; che è, insomma, un autentico “cerotto”, riportiamo le parole dell’insigne linguista Aldo Gabrielli. «... La fortuna della locuzione si deve all’umorista inglese Jerome K. Jerome (1859-1927) autore del romanzo “Tre uomini in barca”, in cui un personaggio ha sofferto di tutte le malattie, tranne il ‘ginocchio della lavandaia’. Malattia che, se pur rara, esiste veramente, ed è una forma di borsite, un’infiammazione del cuscino che protegge la rotula».

* * *

Due parole sulla preposizione semplice “con” perché non tutti sanno, forse, che può avere valore concessivo: con tutta la sua sicurezza (nonostante la sua sicurezza) è stato respinto; si può usare in sostituzione del gerundio con un verbo di modo infinito: col ballare (ballando) si mantiene agli studi. È scorretto il suo uso anche se in... uso con il partitivo: domani partirò con degli amici. Si dirà, correttamente: domani partirò con alcuni amici.



domenica 3 aprile 2011

Scongiurare

Ancora un verbo che, a nostro modo di vedere, viene molto spesso adoperato impropriamente: scongiurare. Il significato proprio è “fare scongiuri”, “pregare con insistenza”, “supplicare”: scongiurare (allontanare) gli spiriti maligni; ti scongiuro (ti prego, ti supplico), non partire. Spesso, dicevamo, viene adoperato impropriamente, seguendo l’uso figurato del francese, nel significato di “prevenire”, “evitare”, “scansare”, “rimuovere”, “stornare” e simili: scongiurare un disastro; scongiurare una minaccia; scongiurare una malattia. In questi casi e in altri simili, in buona lingua italiana, si adoperano i verbi che fanno alla bisogna: “evitare” un disastro; “stornare” una minaccia; “prevenire” una malattia. I vocabolari, però... Voi, amici, seguite la vostra “coscienza linguistica”.

sabato 2 aprile 2011

Tante «santebarbare»

Gentilissimo Dott. Raso, in un articolo di cronaca nera in cui si parlava di molti appartamenti trasformati dalla malavita in tanti depositi di munizioni, il giornalista ha scritto: «... gli appartamenti erano tante ‘santabarbare’...». Le domando, cortesemente, è corretto quel plurale “santabarbare”? Grazie e cordialità
Federico B.
Rimini
----------
No, cortese Federico, il plurale corretto è “santebarbare” (si pluralizzano entrambi i termini). Veda anche
qui.

venerdì 1 aprile 2011

Fare un cancan

Il modo di dire, che avete appena letto, è conosciutissimo in quanto tutti lo adoperiamo allorché vogliamo mettere in evidenza il fatto che una persona - spesso in preda alla collera - fa un gran putiferio, un pandemonio o si comporta in modo da sollevare uno scandalo. La locuzione ha varie interpretazioni... etimologiche. Cancan innanzi tutto - è il caso di ricordarlo - è anche il titolo di una canzonetta, o meglio di una danza francese alquanto sfrenata, in voga nel periodo della “Belle Époque”. Il termine cancan, dicevamo, si presta a due interpretazioni. Secondo il “Dizionario” di P.M. Quitard sarebbe il latino “quamquam”, vale a dire ‘sebbene’. Questa congiunzione era “di moda”, nel secolo XVII, tra i conferenzieri universitari, che la adoperavano in apertura di discorso: era ritenuta, infatti, un costrutto molto elegante e raffinato al punto di assumere l’accezione di “arringa pubblica su argomenti filosofici”. Ma vediamo come il vocabolo si è diffuso nel significato odierno di “putiferio”. Secondo l’usanza gotica la congiunzione latina “quamquam” veniva pronunciata “kankam”. Un celebre umanista però, Ramus, sosteneva, giustamente, che la locuzione andava “recitata” alla latina ma i “sapientoni” della “Sorbona” (università parigina) non ne vollero sapere tanto che ‘dimissionarono’ un giovane professore che aveva avuto l’impudenza di pronunciare “quamquam”. Questi fece ricorso al Parlamento dove l’umanista Ramus assunse la “difesa” del giovane docente. Davanti alle assise Ramus riuscì a “smantellare” le argomentazioni dei fautori della pronuncia gotica (kankam) con motivazioni che misero in ridicolo gli “accusatori” del giovane insegnante. Il Parlamento, allora, emise un verdetto salomonico lasciando a ciascuno la facoltà di pronunciare il termine in tutti e due i modi. Al “verdetto” seguí un furibondo litigio con una rissa conclusasi con l’assassinio di Ramus. Da quel momento in poi il vocabolo passò a indicare una violentissima discussione su argomenti di irrilevante importanza e in seguito, per estensione, un... cancan, cioè un gran putiferio. La seconda interpretazione - per altri insigni Autori - va ricercata nel suono onomatopeico con cui i fanciulli francesi chiamano l’anatra (“canard”) ma va riferita, anche e soprattutto alla danza in cui il passo e il dimenarsi assomigliano all’andatura dell’anatra, appunto.

* * *
Disopra e di sopra


Di questo avverbio di luogo, che sta per “in luogo superiore”, “sopra” sono corrette entrambe le grafie (la scissa e l’univerbata); la piú adoperata, però, è la forma scissa. È preferibile la grafia unita quando l’avverbio è adoperato in funzione di sostantivo maschile atto a indicare la parte superiore di qualcosa: il disopra del tavolo; il disopra dell’edificio.