lunedì 31 gennaio 2011

Il "progresso linguistico"



Il responsabile della rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete, Massimo Arcangeli, ci ha accusato di essere un “codino linguistico” (http://linguista.blogautore.repubblica.it/2010/10/08/dubbi-sullitaliano-risponde-il-linguista2/#comments). Gli rispondiamo riproponendo quanto scrivemmo tempo fa. Si clicchi su: http://faustoraso.ilcannocchiale.it/2010/01/31/il_progresso_linguistico.html

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Per divagarsi un po’, tratto dal sito di Gianni Pardo
L'ottimista pensa che questo sia il migliore dei mondi possibili. Il pessimista sa che è vero.
Una vecchietta alla fermata dell'autobus domanda : "Scusi, giovine, dove devo prendere l'autobus per andare in cimitero?" E il giovane: "In fronte..."
NAPOLI. Scuola elementare per bambini down. La maestra di Inglese entra e dice : "Sit down". E i bambini rispondono: "E tu si 'na zoccola!".
Walt Disney presenta ..... i 7 nani drogati! Bucalo, Sniffalo, Rollalo, Taglialo, Fumalo, Impasticcalo e Sballalo. Chi manca? Spaccianeve!!!
A volte qualcuno perde una guerra, purtroppo c'è sempre qualcuno che la ritrova.

domenica 30 gennaio 2011

«Formidabile»? Spaventoso!...


Probabilmente ci attireremo le ire dei cosí detti linguisti progressisti - quelli che sostengono che la lingua per fortuna cambia e, con la lingua, cambiano fortunatamente tanto i parlanti quanto gli scriventi - se sosteniamo che, molto spesso, per non dire sempre, si dà all’aggettivo “formidabile” un significato che, propriamente, non ha: straordinario, valente, bello e simili.
Formidabile, dunque, proviene dal latino “formidabilis”, tratto dal verbo “formidare” (temere, spaventare e simili). Una cosa “formidabile”, quindi, è una cosa spaventosa. È però invalsa nell’uso comune - come dicevamo - l’accezione, assai diversa, e che condanniamo recisamente, di “straordinario”, “valente” e simili. “Formidabili quegli anni” è addirittura il titolo di un libro di Mario Capanna, ex “leader” (si perdoni il barbarismo che abbiamo virgolettato) del Movimento studentesco milanese. A nostro modo di vedere, insomma, chi ama il bel parlare e il bello scrivere si deve attenere al significato proprio dell’aggettivo.
Si veda
QUI.

sabato 29 gennaio 2011

«I rompighiacci»!? Perché no?


Stupisce il constatare che tutti (?) i vocabolari (tranne quello del Gabrielli) attestino il termine “rompighiaccio” come vocabolo invariabile. La parola in questione può essere tanto sostantivo quanto aggettivo. In funzione di sostantivo si pluralizza normalmente, come tutti gli altri di questo tipo composti con una voce verbale (rompere) e un nome maschile singolare (ghiaccio): il rompighiaccio (strumento), i rompighiacci. Resta invariato in funzione aggettivale: la nave rompighiaccio, le navi rompighiaccio; una frase rompighiaccio, alcune frasi rompighiaccio. Si clicchi su rompighiaccio e su questo collegamento.

venerdì 28 gennaio 2011

«Sia... sia» o «sia... che»?




Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:
Lorenzo scrive:
Gentili linguisti,
sin dalle elementari un dubbio mia ha sempre assalito, confuso dai pareri contraddittori di varie persone. Ve lo esplico brevemente: è più corretto “sia… sia…” oppure “sia… che…”?
Grazie.

linguista scrive:
Sono corrette entrambe le soluzioni. Si può aggiungere che la correlazione “sia… sia” risulta maggiormente formale di “sia… che”. La scelta tra l’una e l’altra dipende quindi da fattori stilistici.
Alessandro Di Candia
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Forse è il caso di aggiungere alla risposta del linguista che la Crusca sconsiglia l’uso della correlazione “sia... che”:

Sia… sia o sia… che? Un quesito posto frequentemente riguarda la forma più corretta nei nessi correlativi.
Sia… sia / sia… che

Riportiamo quello che suggeriscono a tale proposito Valeria Della Valle e Giuseppe Patota nel loro Il Salvaitaliano (Sperling & Kupfer Editori, 2000, pp. 172-3).

«La forma tradizionale, per questo tipo di correlazioni, è sempre stata sia… sia. Pensate che nel passato, quando ancora si coglieva il fatto che quei due sia erano forme del verbo essere, si potevano trovare anche altre coppie di voci verbali, come siano… siano o fosse… fosse.

La forma sia… che, comparsa per la prima volta nell’Ottocento, oggi è diffusissima, e non può certo essere considerata un errore; noi comunque, vi suggeriamo di non usarla, sia per amor di tradizione, sia perché, in frasi lunghe e complesse, potrebbe generare confusione con altri tipi di che. Pensate a una frase come questa: “La mostra è adatta sia agli adulti, che apprezzeranno l’equilibrio delle linee e dei colori, che ai bambini, che potranno divertirsi nello ’spazio disegni’ creato apposta per loro”. Se, al posto di sia… che, userete sia… sia, eviterete quella gran folla di che, e tutto diventerà più chiaro: “La mostra è adatta sia agli adulti, che apprezzeranno l’equilibrio delle linee e dei colori, sia ai bambini, che potranno divertirsi nello ’spazio disegni’ creato apposta per loro”.»

giovedì 27 gennaio 2011

«DefatiGare» e «defatiCare»


Leggiamo dal vocabolario “Treccani” in rete:
defatigare
defatigare (non com. defaticare) v. tr. [dal lat. defatigare, comp. di de- e fatigare «affaticare»] (io defatigo, tu defatighi, ecc.), letter. – Stancare, esaurire le capacità di resistenza di una persona. ◆ Part. pres. defatigante anche come agg., che affatica, che logora le forze. ◆ Part. pass. defatigato, anche come agg., affaticato, spossato.
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“Defaticare” non è una variante poco comune di “defatigare”. Sono due verbi a sé stanti e con significati diversi. “Defatigare”, con la “g”, è pari pari il latino ‘defatigare’ composto con il prefisso “de-” (che non ha valore sottrattivo) e il verbo ‘fatigare’ (affaticare) e significa “stancare”, “logorare”, “affaticare”. “Defaticare”, con la “c”, è composto con il prefisso sottrattivo o di allontanamento “de-” e il sostantivo “fatica” (‘che toglie, che allontana la fatica’). Si adopera soprattutto nel linguaggio sportivo nella forma riflessiva e significa “compiere determinati esercizi per togliere dai muscoli l’eccesso di acido lattico formatosi in seguito a sforzi prolungati”. Si potrebbe dire quindi, in senso lato, che “defatigare” sta per “procurare la fatica”; “defaticare” per allontanarla.
Altri vocabolari, comunque, sono incorsi nel medesimo “errore” del Treccani.
Si clicchi su defatigare e defaticare
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«Mangiarsi il pan pentito»
Questo modo di dire, probabilmente, è sconosciuto ai piú. Si adopera quando si vuole mettere in evidenza il fatto di essersi amaramente pentiti per non aver saputo trarre vantaggio da un'occasione propizia. Rendersi conto, insomma, di essersi lasciati sfuggire una buona occasione e ripensare quindi a ciò che si è perduto tutte le volte che si mangia un pezzo di pane.

mercoledì 26 gennaio 2011

«Quisquiglia»? Meglio quisquilia


Stupisce il constatare che tutti i vocabolari consultati, tranne il Sandron e il Dop (Dizionario di Ortografia e di Pronunzia), attestino “quisquiglia” variante corretta di “quisquilia”. Questo termine, che come sappiamo significa “inezia”, “minuzia”, “cose di nessun conto” e simili discende dal latino “quisquiliae, arum” il digramma “gl” , quindi, non c’entra nulla. Gli amici blogghisti che amano il bello scrivere ne tengano conto.
Si clicchi su questo collegamento
http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=23306&r=22340

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Un interessante intervento di
GIANNI PARDO tratto dallo “Scioglilingua” del Corriere della Sera in rete:
Zeta o doppia zeta
Mi inserisco sul discorso della pronuncia della zeta. Non credo di essere un genio della pronuncia, ma mi succede di riuscire a pronunciare benissimo con una zeta le parole come: direzione, Mazara, azoto, condizione, direzione, accettazione, soluzione, interpretazione ed altre. Proprio come riesco a pronunciare con una sola "bi" libro, libertà, libagione ed altre simili. Anche "interprete" viene pronunciato "intepprete", forse solo per pigrizia (con una zeta!) nella pronuncia. Credo che sia solo mancanza di una certa cura nel cercare di pronunciare in modo corretto una lingua che se vuole avere una pronuncia doppia lo segnala chiaramente... raddoppiando la lettera voluta! E' inutile, a parer mio, addebitare ad una innaturalità nella pronuncia l'abuso di raddoppiamenti indebiti. Come si impara la pronuncia di inglese, tedesco, francese e spagnolo: perché non imparare anche la corretta pronuncia di ciò che si legge in italiano?
(Firma)

IL METODO GIUSTO
Se mi si consente per una volta di essere severo, devo dire al sig.** che in materia di alcune doppie, in italiano, egli non ha un’opinione sbagliata - sarebbe il meno - ma un metodo sbagliato. Se egli è talmente bravo da pronunciare “direzione, Mazara, azoto, condizione, direzione, accettazione, soluzione, interpretazione” con una sola zeta significa soltanto che riesce a sbagliarle tutte. Se avesse aperto un dizionario italiano che riporta la pronuncia, per esempio lo Zingarelli del 1970, avrebbe trovato che la trascrizione fonetica di quelle parole è diret’tsjone, ad’dzoto, e sempre t’tsjone come trascrizione fonetica di “zione”. Insegna del resto lo Zingarelli del 1995, all’inizio della “Z”: “Sorda o sonora, la Z non è mai di grado tenue, nell’uso più corretto: in mezzo a due vocali (rizoma) o tra vocale e semiconsonante (at’tsjone) è sempre di grado rafforzato...”.In materia di lingua, non serve a niente dire risolutamente “è così”: perché se quell’opinione corrisponde alla buona lingua, è meglio dimostrare perché corrisponde alla buona lingua. E se non corrisponde, è solo la confessione di un errore.Parlavo di metodo sbagliato per tre ragioni. Volendo formulare dei pareri, bisognerebbe prima documentarsi, per quanto possibile. In questo campo Ivana Palomba è un esempio luminoso. Poi, credere che l’italiano si legga come si scrive è un’illusione vagamente scolastica. Infine bisogna ricordare che le lingue non sono regolate dalla logica, o dalla grafia, ma dall’uso dei ben parlanti. Se i ben parlanti dicono “per lo meno”, è inutile ricordare la regola da scuola elementare per cui le parole che cominciano per consonante vogliono l’articolo “il”.
Gianni Pardo
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Titolo di Porta a porta di ieri sera:
«Cena tra amici
senza alcol e sesso»
Forse è il caso di ricordare a Bruno Vespa, notoriamente sensibile ai problemi di lingua, che se la preposizione impropria 'senza' regge due o piú sostantivi, davanti al secondo e a quelli successivi si pone la negazione 'né' o la 'o', a seconda del contesto; mai la 'e'. Il titolo corretto, quindi, avrebbe dovuto recitare: «... senza alcol né sesso».

martedì 25 gennaio 2011

Ancora su «monolingue»



“Monolingue”, emendamento della Treccani
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monolingue
monolìngue agg. [comp. di mono- e lingua, sul modello di bilingue]. – 1. Scritto o redatto in una sola lingua (contrapp. a bilingue, plurilingue, multilingue): iscrizione m.; documento, contratto m.; di opera lessicografica, che registra le parole e la fraseologia di una sola lingua, spiegandole e definendole con altre parole della lingua stessa, come per es. un vocabolario o dizionario italiano, o francese, o inglese, o russo (in contrapp. ai vocabolarî o dizionarî bilingui, che registrano, in genere senza definizione, le parole e le locuzioni di una lingua per darne la traduzione in un’altra lingua, come sarebbe, per es., un vocabolario italiano-tedesco e viceversa). 2. Di individuo o gruppo etnico che conosce e usa una sola lingua, o di luogo in cui è conosciuta e parlata una sola lingua o il solo dialetto locale: essere m.; popolazione m., zona monolingue.
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COMMENTI
dalla Redazione Ringraziamo l'utente per la segnalazione, la flessione corretta non prevede invariabilità. da Redazione_Treccani- 13/01/2011 09:36:26

Monolingue (2)La versione cartacea del "Treccani", correttamente - a mio avviso - non specifica l'invariabilità. Se ne deduce, quindi, che il plurale è "normale": monolingui. Come si spiega questa disparità di opinioni tra i due "Treccani"? A chi deve dare ascolto una persona sprovveduta? Fausto Raso da fauras- 07/01/2011 17:55:01

Monolingue Sono stupefatto! L'aggettivo in oggetto non è invariabile, il suo plurale è "monolingui", come i plurali di bilingue, plurilingue, multilingue (bilingui, plurilingui, multilingui). Il Dop, il Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, è chiarissimo: monolingui. Fausto Raso da fauras- 05/01/2011 18:25:44

sabato 22 gennaio 2011

«Flottare»


Quanto stiamo per scrivere non avrà l’approvazione di molti (se non tutti) linguisti e lessicografi. Vogliamo parlare di un verbo dal “sapore” francese ed entrato nel nostro lessico, se non ricordiamo male, nel XVIII secolo: flottare. Perché non avrà l’approvazione dei “grandi”? Perché diciamo che a nostro modo di vedere è da bandire, sebbene, ormai, abbia acquisito il diritto di cittadinanza italiana e sia riportato in tutti i vocabolari. È da bandire perché non è schiettamente italiano. Discende, infatti, dal francese “flotter”, da “flot” (‘onda’) e significa “galleggiare” e simili. In lingua italiana esistono i verbi “galleggiare” appunto, “ondeggiare”, “fluttuare”; per quale motivo ricorrere al verbo barbaro “flottare”? Ricordiamo, comunque, a coloro che volessero adoperarlo ugualmente, che è un verbo intransitivo e nei tempi composti prende l’ausiliare ‘avere’: la barca ha flottato per molto tempo.

venerdì 21 gennaio 2011

Disquisizioni linguistiche sull'italiano





Da “Domande e risposte” della Treccani in rete:
Nella frase “un altrettanto bella occasione” – “altrettanto” inteso come avverbio – l’articolo “un” va apostrofato oppure no?

L’articolo va riferito al sostantivo. In questo caso, occasione. Dunque siamo in presenza di una, articolo indeterminativo femminile singolare, con la variante elisa un’ da preferire se la parola seguente comincia con una vocale. Si può scegliere se scrivere un’altrettanto bella occasione o una altrettanto bella occasione.
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Dissentiamo totalmente sulla risposta degli esperti. Come si fa a mettere l’apostrofo davanti a un avverbio? Nel caso specifico, inoltre, "altrettanto" è in funzione di aggettivo indefinito e in quanto tale si declina: un'altrettantA bella occasione. Molti
LIBRI ci confortano in proposito.
PS: Altrettanto non è un aggettivo indefinito con valore correlativo esprimente uguaglianza nella quantità?
Un esempio: domani dovrò fare altrettanti esercizi (vale a dire: 'tanti esercizi quanto oggi').
Quindi: "Un'altrettanta bella occasione" (vale a dire "tanta bella occasione quanto quella...’).
Per "tanta bella" si veda QUI

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Dallo “Scioglilingua” del Corriere della Sera in rete:
D'omonimi ed altri "omi"
Il post del signor * ha fatto sorgere un dubbio al mio amico *, che oggi è in vacanza, dopo tanto viaggiare.
Si domanda Mr. * se abbia senso in Italiano parlare di parole "omofone", ossia quelle parole di grafia uguale o diversa, significato diverso, ma d'ugual pronuncia.
Grazie
Firma
Risposta del linguista:
De Rienzo Giovedì, 20 Gennaio 2011
E perché no?
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Gentile Professore, ci corre l’obbligo di dissentire recisamente. Le parole di grafia diversa non possono essere “omofone”.
La nostra lingua è ricca di parole “omofone” (stesso “suono”) e “omografe” (stessa grafia). Vediamo, succintamente, la differenza. Le parole omofone sono dette anche “omonime” perché oltre ad avere il medesimo “suono” hanno anche lo stesso nome (la “bugia”, per esempio: candeliere e menzogna); quelle omografe, invece, hanno la medesima grafia ma il “suono”, cioè la pronuncia, non sempre uguale. Legge, “norma” e lègge, dal verbo leggere, per esempio, sono omografe ma non omofone. Le parole omofone, quindi, sono (quasi) sempre omografe; queste ultime invece, non necessariamente sono anche omofone. E quanto alle omofone (o omonime) c’è da dire che nella stragrande maggioranza dei casi provengono da due termini diversi che hanno finito con il coincidere per l’evoluzione storica del linguaggio. Vediamo, in proposito, qualche esempio: la lira, moneta, viene dal latino “libra(m), mentre la lira, strumento musicale, da “lyra(m); il miglio, la pianta, ha origine da “miliu(m), il miglio, la misura da “milia”. Ancora: la fiera, belva, da “fera(m), fiera, mercato, da “feria(m)”; botte, recipiente, da “butta(m)” (‘piccolo vaso’), botte, percosse, dal francese antico “boter” (percuotere). Sarà bene, per tanto, accentare le parole omonime che possono generare equivoci: balia e balía; regia e regía; ambito e ambíto; subito e subíto; ancora e àncora; decade e decàde e via dicendo. L’accento che si adopera in questi casi si chiama “fonico” perché fa cambiare, appunto, il “suono” alle parole che hanno il medesimo nome. Un accento, diceva un grande linguista, “se al posto giusto non ha mai fatto male a nessuno”.

giovedì 20 gennaio 2011

Un complemento bistrattato





Ancora un complemento “bistrattato”. Esaminiamo questa frase: “Giovanni è piú alto di Mario di tre centimetri”. Tutti (?) i sacri testi grammaticali, “di tre centimetri” lo classificherebbero un complemento di abbondanza: Giovanni, nei confronti di Mario, “abbonda” di altezza. Il complemento di abbondanza indica, infatti, ciò di cui una persona o una cosa abbonda, è introdotto dalla preposizione “di” ed è retto dai verbi indicanti pienezza, ricchezza come, per esempio, “colmare”, “saziare”, “traboccare”, “abbondare”, “riempire”, “arricchire” e simili. Può anche essere retto da aggettivi quali “munito”, “dotato”, “colmo”, “zeppo”, “fornito”, “pieno” eccetera: Roma è ricca di monumenti. Quando questo complemento indica, però, la differenza che intercorre tra due elementi della frase e può essere retto da un comparativo (piú alto di, maggiore di, ecc.), da una preposizione o da un avverbio che stabiliscono un raffronto, da verbi che indicano precedenza o superamento è piú corretto chiamarlo, anzi si deve chiamare “complemento di differenza”: pochi giorni dopo; cinque metri oltre la curva; lo precede di alcune ore. Questa “differenza” tra il complemento di... differenza e quello di abbondanza, se non cadiamo in errore, non è messa in luce nei testi grammaticali che abbiamo consultato. Nell’esempio iniziale, dunque, “Giovanni è piú alto di Mario di tre centimetri” abbiamo un complemento di differenza e non di abbondanza.

martedì 18 gennaio 2011

Questioni linguistiche


Un interessantissimo e istruttivo articolo di Gianni PARDO

TESTO EDITO, INEDITO ED... INTONSO

Una lettrice pone il problema di un gruppo di parole: "test, teste, testa, testo, testi...", che sembrano (ma sembrano soltanto) appartenere alla stessa famiglia. Teste (testimonio) ha un padre legittimo e trasparente nel latino testis. Testo deriva invece da textus, parente stretto di tessuto. Cioè insieme di parole collegate, intessute, con una trama (altro termine da tessitoria) . Per testa e testo, ho scritto qualcosa su questo stesso forum nel gennaio 2009: ma si sa che nulla è più inedito dell'edito. Ecco.
Rispetto al fatto che testa, in latino, significava vaso di terracotta, si possono aggiungere due notazioni. Se da "vaso di terracotta" si è passati al significato di "caput" (testa), è perché a volte gli scherzi sono ripetuti così a lungo che alla fine tutti dimenticano che si tratta di scherzi. La semantica fornisce parecchi di questi esempi. In argot, per esempio, si può chiamare la testa "la cafetière", oppure "la poire" (la pera) od altro ancora: e se l'uso di "la cafetière" fosse infinitamente ripetuto potrebbe sostituire "tête". Grazie al cielo allo stato delle cose è un'ipotesi inverosimile. Un secondo esempio è l'espressione italiana "da subito". Si tratta evidentemente di uno scherzo. Nessuno che stia attento alle parole che usa direbbe mai "da immediatamente": e tuttavia "da subito" lo si è ripetuto così a lungo, che l'umorismo si è perso per strada e la goffaggine è entrata nella lingua. Altra notazione riguardante il vaso di terracotta riguarda la parola "test". Poiché la terracotta è un materiale inerte, nell'antichità veniva usata per fondere i metalli, in particolare l'oro, e saggiarne la qualità. Da questo esame fatto con la terracotta è derivata la parola inglese "test", da noi supinamente accettata al posto del più piano ed equivalente "esame".
Aggiungo oggi, al passaggio, il mio fastidio per l'uso improprio, e quasi di moda, dell'aggettivo "intonso", che una volta si usava per i libri non tagliati (quando ancora si pubblicavano con i fogli piegati e rilegati). Ora esso viene applicato a situazioni che con la sua origine fanno a pugni. Sarebbe bello se ognuno, prima di usare una parola poco corrente, si accertasse del suo significato.

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Non avremmo mai immaginato che un vocabolario di lingua italiana attestasse come sinonimo di un termine italiano una parola anglo-francese. Guardate, è il Sabatini Coletti in rete:
prestazione [pre-sta-zió-ne] s.f.
1 Messa a disposizione della propria opera, della propria competenza, delle proprie capacità: p. professionale p. d'opera, attività svolta in un rapporto di lavoro dipendente
2 Risultato ottenuto, rendimento fornito in un'attività SIN performance: la squadra ha fornito una buona p.
3 (spec. pl.) Rendimento di una macchina, di un dispositivo ecc.: p. di un'automobile
4 dir. Oggetto e contenuto di un'obbligazione.



lunedì 17 gennaio 2011

«Specificazione epesegetica»


A proposito del complemento di aggiunzione, di cui abbiamo parlato recentemente, dobbiamo dire che non è il solo “snobbato” da molti sacri testi grammaticali. Ce n’è un altro “snobbato a metà”: il complemento di specificazione. E ci spieghiamo. La maggior parte (tutti?) dei testi grammaticali liquidano l’argomento scrivendo: «Il complemento di specificazione serve a specificare il significato di un nome generico (l’amico ‘di Carlo’) e risponde alla domanda sottintesa ‘di chi?, ‘di che cosa’?», oppure: «È un sostantivo o un nome preceduto dalla preposizione ‘di’, che specifica o chiarisce il nome precedente». A nostro modo di vedere l’argomento andrebbe affrontato diversamente chiarendo, inoltre, che il complemento di specificazione non è “unico”; ci sono almeno tre tipi: a) il complemento di specificazione propriamente detto (“specificazione epesegetica”); b) il complemento di specificazione attributiva; c) il complemento di specificazione possessiva. Questi tre tipi vengono, come dicevamo, snobbati dai testi grammaticali. Vediamo di chiarire meglio. Il tipo “a” si ha quando il complemento dichiara il senso particolare del sostantivo o nome cui è riferito: il libro ‘di geografia’ è introvabile; il tipo “b” quando il sostantivo si può trasformare in un attributo: le acque ‘dei fiumi’ (fluviali) sono inquinate; il tipo “c”, infine, si ha quando il complemento indica la persona o la cosa che possiede o a cui appartiene quanto espresso dal termine reggente: il vestito ‘di Marianna’ è veramente costoso. Per concludere: il complemento di specificazione è retto da un sostantivo; con un verbo o un aggettivo si hanno, infatti, altri complementi, anch’essi introdotti dalla preposizione “di” (piangere ‘di’ gioia, complemento di causa; ombroso ‘di’ carattere, complemento di limitazione).

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Segnaliamo questo interessantissimo sito:
www.unaparolaalgiorno.it

domenica 16 gennaio 2011

Sala d'aspetto (sala d'attesa)


Gentilissimo Professore,
alla luce di quanto ha scritto, ieri, circa la differenza che intercorre tra i verbi “aspettare” e “attendere”, come la mettiamo con “sala d’aspetto” e “sala d’attesa”? Si possono adoperare indifferentemente?
Grazie
Rosario C.
Enna
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Cortese Rosario, nell’uso comune le due locuzioni sono intercambiabili, si possono usare, cioè, indifferentemente. Io, però, farei il medesimo distinguo che ho fatto sull’uso di “aspettare” e “attendere”. Adopererei “sala d’aspetto” nelle stazioni ferroviarie, negli uffici e in posti simili, luoghi in cui i viaggiatori aspettano di partire e i clienti aspettano di essere ricevuti. “Sala d’attesa”, negli ospedali, negli studi medici e in tutti quei locali in cui colui che attende è preda dell’ansia, della commozione, del desiderio e di sentimenti simili.

sabato 15 gennaio 2011

«Aspettare» e «Spettare»


Si presti attenzione, nello scrivere e nel parlare, a questi due verbi: aspettare e spettare perché molto spesso si confondono l’uno con l’altro in quanto sono parenti. Il primo, come recitano i vocabolari, significa “essere in attesa dell’arrivo di qualcuno o del verificarsi di qualcosa”: aspetto l’apertura del negozio; il secondo sta, invece, per “appartenere di diritto”, “toccare”, “competere”, “riguardare” e simili: spetta a te fare gli onori di casa. Non diremo quindi, soprattutto in alcune regioni, “per quel lavoro ti aspettano 50 euro” ma, correttamente, ti “spettano”, ti “toccano”, ti “competono” 50 euro. Un’ultima annotazione. Non si adoperino, indifferentemente, i verbi “aspettare” e “attendere”. Si “aspetta” il tram alla fermata; si “attendono” i risultati degli esami. Nel verbo attendere è insita l’idea dell’ansia, del desiderio, della commozione... Sentimenti che non si provano, certamente, aspettando il... tram.

venerdì 14 gennaio 2011

Parlare a vanvera




Stimatissimo dott. Raso,
seguo sempre, e con vivo interesse, le sue istruttive noterelle sul buon uso della lingua italiana. Le scrivo per una curiosità: perché si dice “parlare a vanvera”?
Grazie e distinti saluti.
Mario R.
Taormina
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Gentilissimo Mario, le confesso che non lo so, anzi, non lo sapevo. Le riporto una spiegazione che ho trovato cercando nella rete; non so, quindi, quanto questa fonte possa essere attendibile.

L'espressione compare per la prima volta nel 1565 in un testo dello storico fiorentino Benedetto Varchi e significa dire cose senza senso o senza fondamento. Sulla sua provenienza si sono fatte molte ipotesi. Alcuni studiosi, ad esempio, fanno notare che la radice di vanvera assomigli a quella di vano. Altri ritengono che la parola derivi dal "gioco della bambàra", una locuzione, forse di origine spagnola, con la quale s'intendeva una perdita di tempo.
Origini contrastanti. E se a rinforzare questa tesi c'è il fatto che in certe zone della Toscana si dica proprio "parlare a bambera", alcune contraddizioni cronologiche e altri piccoli indizi sembrerebbero smentirla seccamente. Per questa ragione, oggi gli etimologisti sono più propensi a credere che vanvera sia una variante di fanfera, una parola di origine onomatopeica che vuol dire "cosa da nulla": fanf-fanf, infatti, riproduce il suono di chi parla farfugliando e, appunto, senza dire niente di sensato.

Le segnalo, anche, ciò che dice il vocabolario etimologico di
Ottorino Pianigiani.

giovedì 13 gennaio 2011

«Fuori pericolo»


Dalla rubrica di lingua del quotidiano la Repubblica in rete:

Ines scrive:
12 gennaio 2011 alle 19:50
Desidero porre due quesiti sui complementi.
Nella frase il sintagma “fuori pericolo” a quale complemento corrisponde esattamente?
In quale caso un complemento (diretto o indiretto) è ritenuto “circostanziale”?
Ringrazio anticipatamente e porgo distinti saluti.

Ines scrive:
12 gennaio 2011 alle 20:15
Chiedo scusa se intervengo nuovamente, ma il mio commento (in attesa di moderazione) non riporta la frase da me proposta:
“La donna, sottoposta a intervento, è ora considerata fuori pericolo”.
Grazie

linguista scrive:
12 gennaio 2011 alle 20:48
“Fuori pericolo” è un complemento di luogo figurato. Un complemento circostanziale è un qualunque complemento che indichi, per l’appunto, le circostanze di svolgimento di una determinata azione (tempo, luogo, ecc.).
Massimo Arcangeli
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Ci dispiace, ma dissentiamo totalmente sulla risposta del linguista. Il complemento di luogo figurato è una particolare variante del complemento di stato in luogo e, come questo, risponde alla domanda "dove?" ma indica l'essere stato in quello che è un luogo non materiale. Un esempio: «Sono felice tanto che mi sembra di essere al ‘settimo cielo’», ove il settimo cielo non corrisponde letteralmente a ciò che si intende esprimere. Nella frase in esame : “La donna, sottoposta a intervento, è ora considerata fuori pericolo”, non si può rispondere alla domanda sottintesa “dove?”. Come si può ritenere, dunque, “fuori pericolo” un complemento di luogo, sia pure figurato? A nostro modo di vedere si tratta di un complemento di aggiunzione: la donna, sottoposta a intervento, è ora considerata (fra le altre cose) fuori pericolo. Un complemento circostanziale inoltre, a differenza di quello essenziale, si può eliminare senza compromettere il senso della frase. Un esempio: Giuliano ha incontrato il suo amico nei giardinetti della città. Se togliamo “nei giardinetti della città” la frase ha ugualmente senso; non lo ha, invece, se togliamo “il suo amico”. Quindi: “il suo amico” è un complemento essenziale; “nei giardinetti” un complemento circostanziale. Si possono definire - a nostro avviso - complementi essenziali quelli diretti; circostanziali quelli indiretti: Giovanni ha comprato una mela (complemento oggetto-diretto essenziale) per Lucia (complemento di vantaggio- indiretto circostanziale).



mercoledì 12 gennaio 2011

«Non volere il pane a conto»







Il modo di dire, che avete appena letto, probabilmente è sconosciuto ai piú. Si adopera quando si vuol mettere in evidenza il fatto di non accettare prestiti o favori troppo impegnativi. Quando non si vogliono avere, insomma, debiti con nessuno; siano essi debiti materiali siano essi debiti morali. La locuzione trae origine dall’usanza di comperare il pane senza pagarlo subito ma facendo segnare l’importo dovuto su una nota (conto) da pagare in un tempo successivo.

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Un complemento «misconosciuto»

Abbiamo notato che - se non cadiamo in errore - le tradizionali grammatiche non trattano un complemento, anzi lo “misconoscono”: il complemento di aggiunzione (l’opposto è quello di esclusione, questo sí, “riconosciuto”). Questo complemento, dunque, indica - come dice lo stesso nome - “in aggiunta od oltre chi o che cosa” si svolge l’azione espressa dal predicato verbale. Si può riconoscere facilmente perché risponde alle domande sottintese “in aggiunta a chi?”, “al di fuori di che?” e simili. È introdotto non da preposizioni ma da locuzioni del tipo “oltre”, “oltre a”, “fuori del”. Qualche esempio renderà, forse, tutto piú chiaro: sono venuti in molti ‘oltre agli invitati’; ‘il fanciullo, finalmente, è stato dichiarato ‘fuori pericolo’ (di morte); la fanciulla, è incredibile, ha mostrato una forza “fuori del normale”. Il complemento in oggetto può essere costituito anche da un sostantivo o da un pronome. Ricapitolando e semplificando. Il complemento di aggiunzione (che fa parte della schiera di quelli indiretti) indica la persona o la cosa che si “aggiunge” a quanto già espresso nella proposizione.


martedì 11 gennaio 2011

«Estemporaneo» ed «estraneo»


Due parole su due... parole di uso comune non sempre adoperate a dovere: “estemporaneo” ed “estraneo”. Cominciamo con il primo termine, che non significa - come molti credono - bizzarro, avventato, strampalato e simili, ma improvvisato, immediato, senza alcuna preparazione. Si clicchi su estemporaneo . Il secondo, checché ne dicano i soliti vocabolari, sarebbe corretto riferito solo a persona: in questa casa mi sento un estraneo. Adoperato in altri contesti è un francesismo, che - come abbiamo sempre sostenuto - in buona lingua è da evitare. Non si dirà, per esempio, “ciò che dici è estraneo a quello di cui stiamo discutendo”; si dirà, piú appropriatamente (e, quindi, “piú correttamente”) “ciò che dici non ha nulla che fare (non riguarda, non c’entra e simili) con quello di cui stiamo discutendo”. Si clicchi su estraneo.

lunedì 10 gennaio 2011

Due complementi distinti ("rapporto" e "relazione")


Abbiamo notato - con stupore - che la grammatica di Maurizio Dardano e Pietro Trifone assimila il complemento di relazione a quello di rapporto. Citiamo testualmente: «Rapporto o relazione (tra chi?, tra quali cose?): indica un rapporto, una relazione: c’è stato un battibecco tra loro; tra l’uno e l’altro c’è poca differenza; sono in buoni rapporti con il direttore. È retto dalle preposizioni “tra (fra)”, “con”».
Saremo lieti di essere smentiti, ma a nostro modo di vedere sono due complementi distinti. Il complemento di relazione, chiamato anche “accusativo alla greca” (tipico del costrutto sintattico del greco antico) non è introdotto da alcuna preposizione e indica in relazione e limitatamente a che cosa venga espressa l’idea contenuta in un verbo al participio passato come, per esempio, “colpito”, “ferito”, incoronato”, “cinto”, “vestito” ecc. o in un aggettivo come, sempre a mo’ d’esempio, “nudo”, “biondo”, “pallido” e via dicendo. Vediamo qualche esempio d’Autore: “Ebe, ilare il volto e l’abito succinta, le corse incontro” (V. Monti); “Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto” (Manzoni).
Il complemento di rapporto, introdotto dalla preposizione “con” (a volte anche “fra” o “tra”) indica, come dice lo stesso termine, la persona, l’animale o la cosa con cui si stabilisce un... rapporto, un legame. Qualche esempio: Alcuni genitori hanno dei gravi contrasti con i figli; Con quell’individuo non voglio averci che fare; Fra compari, di solito, c’è molta intesa.

domenica 9 gennaio 2011

«Acceffare»


Tra le parole da rispolverare del nostro soave idioma metteremmo il verbo denominale “acceffare”: “prendere per il ceffo”, “abboccare”, “addentare”, “azzanna-re”: il cane ha acceffato quel povero fanciullo. Il ceffo, forse è bene ricordarlo, è il muso degli animali e, per estensione, il volto umano deforme e sinistro. Non si dice, infatti, “quel brutto ceffo”, riferendosi a una persona brutta e malvagia? Bisogna stare lontano da quei brutti ceffi. Non si dice, anche, “dare un ceffone”, cioè colpire nel ceffo, nel volto?
http://www.etimo.it/index.php?term=ceffo
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Essere la panca delle tenebre

Forse pochi conoscono questo modo di dire, che significa “essere sistematicamente maltrattati”, “essere la vittima di turno” per cui nessuno ha rispetto e tanto meno pietà. La locuzione trae origine dalle cerimonie liturgiche che si svolgevano, in passato, durante la settimana santa. Nel corso della suddetta settimana, durante l’ufficio religioso delle Tenebre i devoti percotevano le panche della chiesa con delle verghe.
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Una scoperta sconcertante, fior di personaggi che scrivono innoquo.
Lo strafalcione - cosa ancor piú grave - si trova in testi redatti da docenti universitari..._________________

sabato 8 gennaio 2011

«Disarmare»








Ecco un altro verbo, disarmare, che adoperato in senso figurato (e sempre con il beneplacito dei vocabolari) è un francesismo da evitare in buona lingua italiana. Il significato “principe” del verbo è “privare delle armi”, “togliere le armi”: tutti gli uomini furono catturati e “disarmati”. Impiegarlo - come molti fanno - con il significato di “placare”, “rabbonire”, “domare”, “conquistare” e simili è - ripetiamo, a nostro modo di vedere - un gallicismo da respingere recisamente. Non si dica, per esempio, quella ragazza ha un sorriso che disarma, ma ha un sorriso che conquista. Si può accettare - sempre a nostro avviso - solo nel significato di “cedere”, “rinunciare”, “ritirarsi”, “mollare”: nonostante le pressioni ricevute quell’individuo non disarma (non rinuncia a...).
http://www.etimo.it/?term=disarmare&find=Cerca

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Chiediamo scusa. Ma dobbiamo tornare, ancora una volta, su “monolingue” perché abbiamo scoperto che la versione in rete del vocabolario “Treccani” differisce da quella cartacea.

Alla cortese attenzione della redazione
Da Vocabolario on line TagT:
monolingue
monolìngue agg. [comp. di mono- e lingua, sul modello di bilingue], invar. – 1. Scritto o redatto in una sola lingua (contrapp. a bilingue, plurilingue, multilingue): iscrizione m.; documento, contratto m.; di opera lessicografica, che registra le parole e la fraseologia di una sola lingua, spiegandole e definendole con altre parole della lingua stessa, come per es. un vocabolario o dizionario italiano, o francese, o inglese, o russo (in contrapp. ai vocabolarî o dizionarî bilingui, che registrano, in genere senza definizione, le parole e le locuzioni di una lingua per darne la traduzione in un’altra lingua, come sarebbe, per es., un vocabolario italiano-tedesco e viceversa). 2. Di individuo o gruppo etnico che conosce e usa una sola lingua, o di luogo in cui è conosciuta e parlata una sola lingua o il solo dialetto locale: essere m.; popolazione m., zona monolingue.

COMMENTI
Monolingue (2) La versione cartacea del "Treccani", correttamente - a mio avviso - non specifica l'invariabilità. Se ne deduce, quindi, che il plurale è "normale": monolingui. Come si spiega questa disparità di opinioni tra i due "Treccani"? A chi deve dare ascolto una persona sprovveduta? Fausto Raso

da fauras- 07/01/2011 17:55:01

Monolingue Sono stupefatto! L'aggettivo in oggetto non è invariabile, il suo plurale è "monolingui", come i plurali di bilingue, plurilingue, multilingue (bilingui, plurilingui, multilingui). Il Dop, il Dizionario di Ortografia e di Pronunzia, è chiarissimo: monolingui. Fausto Raso

da fauras- 05/01/2011 18:25:44

venerdì 7 gennaio 2011

Unilingue


Gentilissimo dott. Raso,
veramente interessante la diatriba circa “monolingue/monolingui”. Le confesso che ho sempre ritenuto che tale aggettivo fosse invariabile: il dizionario monolingue, i dizionari monolingue. Scopro ora, grazie a lei, che ho sempre... sbagliato. A questo proposito vorrei sapere se, invece di monolingue, si può usare “unilingue”, con il relativo plurale, sulla scia di unilaterale. I vocabolari in mio possesso non ne fanno menzione. Lei cosa ne pensa?
Grazie e auguri per un sereno 2011.
Goffredo D.
Latina
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Cortese Goffredo, i vocabolari non lo attestano (la sola eccezione, mi sembra, il GDU del De Mauro) perché, pure esistendo, non è adoperato in quanto non si è cristallizzato nell’uso, come monolingue. Se le piace, lo usi pure, nessuno - se conosce e ama la Lingua - potrà meravigliarsi. Unilingue è stato “immortalato” dal linguista Gaetano Berruto. Clicchi su questo collegamento:
http://books.google.it/books?id=6LJhAAAAMAAJ&q=unilingue&dq=unilingue&hl=it&ei=aOsgTbikB8OVswaEpdzqDA&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=11&ved=0CFEQ6AEwCg

giovedì 6 gennaio 2011

Monolingua? No, monolingue


Ancora sul corretto plurale di "monolingue". Si clicchi su questo collegamento: http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=79336&r=32648

mercoledì 5 gennaio 2011

Purchessiano


Riproponiamo quanto scrivemmo - moltissimo tempo fa - sul “Cannocchiale” circa il plurale di “purchessia” in quanto il Gabrielli era il solo a sostenere la non invariabilità. Poi, improvvisamente, i suoi collaboratori hanno cambiato opinione.

Sarebbe interessante conoscere i motivi che hanno indotto i redattori dell’edizione 2008 del vocabolario della lingua italiana di Aldo Gabrielli a “correggere” il loro Maestro.
Nel “Dizionario Linguistico Moderno” del linguista scomparso, alla voce “purchessia” si legge: Aggettivo (pl. purchessiano). Sempre posposto al nome: “Una veste purchessia”, “Tre libri purchessiano”. Anche ‘pur che sia (siano)’.

Nel Gabrielli 2008 in rete si legge:
purchessia
[pur-ches-sì-a]
ant. pur che sia
agg. indef. inv.
(sempre posposto a un s. sing.) Qualsiasi, qualunque sia: bisogna trovare un mezzo p.; sceglierete nel mazzo una carta p.

Come mai, dunque, “purchessia” da variabile è divenuto invariabile?

Il plurale, “purchessiano”, si trova, comunque, in molti libri:

Nuova antologia

Francesco Protonotari - 1932
... antipatiche pel vezzo di esaltare al sommo della scala i cultori purchessiano della critica estetica o psicologica — fra i quali, naturalmente, sarebbero compresi essi in prima fila — come i privilegiati possessori della genialità, ...

Giornale storico della letteratura italiana: Volumi 101-102

Vittorio Cian, Egidio Gorra, Francesco Novati - 1933
... e rese più antipatiche pel vezzo di esaltare al » sommo della scala i cultori purchessiano della critica estetica o » psicologica — tra i quali, naturalmente, sarebbero compresi essi •< in prima fila — come i privilegiati possessori ...

·
La Critica: Volume 31

Benedetto Croce - 1933
Cr., il poeta ci appare preso dalle più cocenti preoccupazioni filosofiche del tempo, ben lontano dal cristianesimo, ben lontano dell'accodarsi a situazioni politiche purchessiano. Che cosa, invece, bisogna pensare delle Georgiche e ...



martedì 4 gennaio 2011

Declinare e Detenere


Altri due verbi della nostra bellissima lingua adoperati impropriamente e sempre con la “complicità” dei soliti vocabolari: declinare (http://www.etimo.it/?term=declinare&find=Cerca) e detenere (http://www.etimo.it/?term=detenere&find=Cerca). Cominciamo con l’ “analizzare” il primo, che propriamente significa ‘piegare’, ‘calare’, ‘modificare’, ‘scendere inclinandosi’ e simili: le colline declinano verso il mare. Non è adoperato correttamente, dunque, nell’accezione di “rifiutare” , "dichiarare", “dare” e simili: Giovanni ha declinato l’invito; la polizia ha chiesto ai presenti di declinare le generalità. In questi casi ci sono altri verbi che fanno alla bisogna: respingere, rifiutare, ricusare, rinunciare, dichiarare, dire, esporre, a seconda del contesto. Si dirà correttamente: Giovanni ha rifiutato l’invito; la polizia ha chiesto ai presenti di dichiarare le generalità.
Il secondo, detenere, vale ‘tenere presso di sé (qualcuno o qualcosa) con la forza’ e solo con questo significato andrebbe adoperato. I detenuti non sono trattenuti “con la forza”? Non ci sembra corretto, quindi, usarlo in altre accezioni come, per esempio, “detenere un primato”, “detenere il brevetto” e simili. Anche in questi casi ci sono altri verbi per l’occorrenza: vantare, tenere, avere, possedere ecc.

lunedì 3 gennaio 2011

La (arte) cucinaria non è "degradante"





Non vorremmo rovinare l’inizio del nuovo anno a qualche linguista (molto spesso improvvisato, e la rete pullula di questa “gente”) che si dovesse imbattere, casualmente, in questo sito. Ciò che stiamo per scrivere, infatti, farà storcere il naso a qualcuno, ma non possiamo sottacere l’uso improprio - a nostro avviso - che taluni fanno dell’aggettivo “degradante”, ‘spalleggiati’, purtroppo, da alcuni vocabolari. Degradante, dunque, è il participio presente del verbo “degradare”, che significa “privare del grado”: quell’ufficiale è stato degradato. E solo in questo significato - in buona lingua - andrebbe adoperato. All’infuori di questa accezione si dovrebbero adoperare altri aggettivi che fanno alla bisogna: avvilente, umiliante e simili. Non diremo, quindi: Giulio è stato costretto a un lavoro degradante, ma, “correttamente”, a un lavoro umiliante. C’è anche un caso inverso, però, un aggettivo ritenuto scorretto, che... scorretto non è: cucinario. Molti linguisti, infatti, lo condannano e “consigliano” culinario. Quest’ultimo aggettivo, invece, pur avendo origini latine (http://www.etimo.it/?term=culinario&find=Cerca) è un francesismo da evitare. Meglio, dunque, arte cucinaria, non culinaria. Ma tant’è.

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Dalla rubrica di lingua del Corriere della Sera in rete:
Questione di imperativo
Gentile Professore, le chiedo se esiste ed eventualmente qual è l'imperativo del verbo assuefare.
Colgo l'occasione per inviarle cordialissimi auguri per un sereno 2011 in buona salute e in serenità.
Grazie.
Firma
Risposta del linguista:
De Rienzo Domenica, 02 Gennaio 2011
Esiste sicuramente quello del riflessivo: assuefati.
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Esiste anche quello “normale”, eccolo:
assuefa, assuefai, assuefa', assuefaccia, assuefacciamo, assuefate, assuefacciano.

sabato 1 gennaio 2011

Buon anno


Un sereno e proficuo 2011 agli amici
blogghisti che ‘onorano’ questo sito